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Papillon

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VOTO: 6

Un altro volo per la farfalla

Remake della pellicola diretta da Franklin J. Schaffner nell’ormai lontano 1973 oppure, semplicemente, un’altra versione del best-seller autobiografico scritto da Henri Charrière? Per uscire subito da tale, poco utile, ambiguità, definiremmo invece la versione 2.1 di Papillon, diretta dal danese Michael Noer, un tentativo di aggiornamento di entrambi, pur mantenendo ovviamente i primi anni trenta del secolo scorso come punto di partenza della trama. La scelta etica ed estetica operata all’interno del Papillon 2017 è, del resto, abbastanza esplicita. Il mondo contemporaneo cade letteralmente in pezzi a proposito di diritti umani, rispetto per le persone e via discorrendo. Perciò la sottolineatura della violenza diviene quasi un’esigenza inderogabile, oltre che un segno di fedeltà pressoché assoluta al testo ispiratore. Il quale viene non a caso ampiamente rimaneggiato proprio in quei segmenti il protagonista trova una sorta di interludio paradisiaco presso gli indigeni in una delle sue tante fughe dopo la deportazione nella Guyana francese, a scontare una pena per un omicidio in realtà non commesso a Parigi.
Mentre dunque il lungometraggio del solidissimo Schaffner – grazie anche alla meravigliosa sceneggiatura firmata da Dalton Trumbo – intercettava alla perfezione le vulgate libertarie tipiche degli anni settanta realizzando un profondo inno a carattere umanista nonostante le atrocità pur presenti nell’arco narrativo, quest’ultima opera ne rappresenta per certi versi l’esatto contraltare, con la cupezza del predominio istituzionale a fare da padrone in un contesto “sporco” dove impera la legge dell’homo homini lupus. Il j’accuse verso una burocrazia che schiaccia invece di redimere attraverso il carcere si fa veemente (con tanto di ghigliottina in azione…), soffocando in maniera piuttosto evidente il respiro narrativo di un film che, al pari del romanzo, avrebbe dovuto possedere l’aura epica dell’anelito inestinguibile nei confronti dell’affermazione personale, da ottenere giocoforza mediante lo status di uomo libero. A patire in misura maggiore questa sorta di corto circuito è proprio la figura di Charrière detto Papillon, a prescindere dalla performance di un attore in prevalenza “fisico” come Charlie Hunnam. Al quale vengono così a mancare le basi per ricercare l’empatia necessaria alla condivisione del calvario laico vissuto dal personaggio. Non casualmente funziona meglio la caratterizzazione del falsario Louis Dega offerta da Rami Malek, anche se i modelli impersonati dai divi Steve McQueen (Papillon) e Dustin Hoffman (Dega) nel film del 1973 restano, come ampiamente prevedibile, iconicamente irraggiungibili.
Al netto delle buone intenzioni appena espresse e nonostante la nuda trama trapiantata dal romanzo ispiratore risulti abbastanza spesso avvincente, questo Papillon targato Noer ha il non trascurabile difetto di non coinvolgere appieno lo spettatore, sbalzato anche suo malgrado in un universo di cupezza persino eccessiva in cui anche l’evoluzione del rapporto d’amicizia che legherà Papillon e Dega sino alla fine, partito da premesse esclusivamente d’interesse economico, fatica non poco a trovare una risoluzione compiuta sullo schermo. Facendo dunque aumentare in modo esponenziale i dubbi sull’effettiva necessità di questa nuova versione (compreso un epilogo assolutamente superfluo rispetto al primo film), che rimane per l’appunto solo un tentativo con qualche spunto interessante ma non del tutto riuscito di riportare a nuova vita l’esistenza (molto romanzata) di un uomo deciso a tutto pur di vivere secondo le proprie regole. Come ogni individuo avrebbe il diritto di fare senza ignorare il benessere comune. La vera impresa, certamente superiore ai mezzi di un qualunque, semplice film, sarebbe cercare di farlo capire a chi governa il mondo attualmente nelle zone nevralgiche del globo. Mission impossible.

Daniele De Angelis

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