Voce del verbo amare
Quando si parla di Gabriele Muccino, si tende a voler parlare di film americano o italiano. Nella circostanza di Padri e figlie, certo, tenendo conto dell’ottima interpretazione di Russell Crowe e, in generale, di tutto il cast, vogliamo “semplicemente” raccontarvi di un lungometraggio potentemente emotivo. Cresce piano piano dentro lo spettatore, scava e forse nell’hic et nunc del momento neanche ci si rende completamente conto di come vada a sfiorare corde intime, te ne accorgi quando il cuore ti si stringe e l’empatia che stai provando ti abbraccia a trecentosessanta gradi perché da quel turbinio di emozioni non puoi scappare.
Abbiamo voluto iniziare questa recensione un po’ diversamente dal solito, più in soggettiva (e spero ce lo permetterete) perché è come se sia stata proprio questa pellicola a richiedercelo.
Siamo nel 1989 a New York, le note di un carillon suggeriscono il polso dell’atmosfera, un padre (Crowe) e una figlia (Kylie Rogers) sono agli estremi di un divano, sopraffatti dal dolore. Basta poco per scoprire cos’è successo tramite un flashback: un incidente mortale per la moglie e madre ha sì causato una forte perdita, ma anche una somatizzazione in particolare nell’uomo (soffre di psicosi maniaco-depressiva). Egli vive il peso dell’accaduto (ma non vogliamo svelarvi eccessivamente) e la responsabilità di dover accudire la sua piccola Katie, volendolo fare nel migliore dei modi. È qui che entra in gioco la zia Elizabeth (Diane Kruger), sorella della donna deceduta, con tutto l’ “ingombro” del suo status economico-sociale dovuto anche alla posizione del marito (Bruce Greenwood).
In Padri e figlie c’è una battuta: «Siamo negli Stati Uniti del denaro. Arte, amore e amicizia non contano nulla». Ve la riportiamo per cercare di restituirvi in minima parte il discorso anche di differenze sociali con cui il nostro co-protagonista si trova a fare i conti. Lui è Jake Davis, uno scrittore di successo che aveva già ricevuto il Pulitzer, ma l’evento catastrofico del lutto gli fa perdere temporaneamente l’ispirazione, per poi riscoprirla per e grazie all’amore per sua figlia.
In un battito di ciglia, quasi senza soluzione di continuità si fa un salto in là con gli anni, ci ritroviamo ventisette anni dopo, Katie è cresciuta (Amanda Seyfried), sta facendo tirocinio come psicologa, ma al contempo, deve acquietare i suoi tormenti interiori legati alla perdita e alla paura di amare più che, forse, alla sua incapacità. I piani temporali si confondono e fluiscono l’uno nell’altro quasi a significare che per vivere serenamente nel presente, non si può lasciare il passato irrisolto.
Anche se la sceneggiatura è stata scritta da Brad Desch, il regista de L’ultimo bacio ha raccontato come questo suo ultimo lavoro sia molto personale, oltre a essere intervenuto materialmente sulla scrittura. Muccino dimostra tatto e forte sensibilità nel mettere a tema il rapporto padre e figlia – ed è una specificazione importante, non è genericamente padri e figli – che per quanto possa apparire “scontato”, qui non lo è affatto perché non resta in superficie, i sentimenti non sono forzati né nella storia di fiction né nelle reazioni che la platea di turno potrebbe avere.
Katie da piccola si ritrova, a un tratto, a prendersi cura di suo padre, forse a dare quelle attenzioni che lei vorrebbe e che in quell’istante riesce a donare, è probabilmente proprio quell’amore gratuito e profondo, comunicato anche tramite un sorriso e una carezza che danno la forza all’uomo. La Katie adulta ha un po’ di barriere da scalfire prima di lasciarsi andare e chi di noi non ha mai provato la paura di amare, il desiderio di essere rassicurati e accolti. La macchina da presa, coadiuvata dall’effetto delle musiche di Paolo Buonvino (e anche del brano di Jovanotti), fa la radiografia dei sentimenti ma non solo dei personaggi, anzi delle persone, sullo schermo, ma anche di quelle in sala, noi spettatori. S’innesca quasi un cortocircuito che non è più così semplice trovare nella sala cinematografica. Padri e figlie fa provare dei brividi di catarsi perché senti che ha smosso qualcosa di molto profondo.
È umano e anche fisiologico che in un percorso artistico e, in generale, professionale ci siano lavori più riusciti e altri un po’ meno, ma per la cura registica e ciò che Padri e figlie ci ha provocato non possiamo che dire chapeau, merito anche delle straordinarie interpretazioni (non possiamo non citare anche Aaron Paul, Jane Fonda, Quvenzhané Wallis), e quasi grazie per questo viaggio così intimo.
«Perché gli uccelli appaiono all’improvviso/ Ogni volta che tu sei vicino?/ Proprio come me, aspirano ad essere/ Vicini a te./ Perché le stelle cadono dal cielo/ Ogni volta che tu passi?» (da “Close To You” dei The Carpenters)
Maria Lucia Tangorra