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Sully

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VOTO: 7.5

Un tuffo dal cielo

208 secondi possono scorrere in un battito di ciglia oppure durare un’eternità, con la percezione del tempo che può variare in base al singolo evento e a chi lo vive. Per i protagonisti della storia al centro dell’ultima fatica dietro la macchina da presa di Clint Eastwood, ossia Sully, quei 208 secondi si sono trasformati improvvisamente nella distanza che li separava dalla vita o dalla morte. Fortunatamente, il destino o chi per lui ha voluto che sui titoli di coda dell’evento in questione si potesse scrivere un lieto fine. Attenzione, non si tratta di uno spoiler, ma di un vicenda della quale conosciamo già il fortunato epilogo, perché quanto narrato nella pellicola del pluri-decorato regista e attore statunitense non è il frutto dell’immaginazione dello sceneggiatore di turno, ma di un fatto realmente accaduto. Le lancette del tempo ci riportano, infatti, al 15 gennaio 2009, per la precisione  sullo US Airways 1549 in volo dall’aeroporto LaGuardia di New York a quello di Charlotte, nella Carolina del Nord. A bordo ci sono centocinquanta passeggeri e in cabina di pilotaggio il comandante Chesley «Sully» Sullenberger e il copilota Jeff Skiles. A 2800 piedi d’altezza uno stormo di uccelli colpisce il velivolo, costringendo il pilota a un ammaraggio d’emergenza, perfettamente riuscito. Nessun passeggero perde la vita in quello che è ricordato come il “Miracolo dell’Hudson”, e solo grazie alla destrezza e all’esperienza di Sully. Sul comandante, però, lo scampato incidente ha conseguenze emotivamente devastanti, complici le varie testimonianze che è chiamato a rilasciare al National Transportation Safety Board per difendere le sue azioni.
Diversamente da quanto si potrebbe pensare e da quanto erroneamente riportato su alcuni siti, il nuovo film di Eastwood non è un biopic sul celebre pilota americano, bensì una ricostruzione del prima, del durante e soprattutto delle fasi immediatamente successive al “miracoloso” ammaraggio. Di conseguenza, Sully non può essere considerata una biografia, semmai un capitolo di essa, perché l’arco narrativo dello script è circoscritto in un lasso di tempo ristretto di una manciata di giorni, ma anche perché l’orizzonte degli eventi si allarga a macchia d’olio al vissuto della restante parte dell’equipaggio e ai passeggeri che quel 15 gennaio di sette anni fa era a bordo di quell’aereo. Ovviamente il punto di vista nevralgico passa attraverso l’esperienza del protagonista, interpretato da Tom Hanks, ma ciò che scorre sullo schermo è prima di tutto il racconto di ciò che non è stato, ossia l’ennesima tragedia nella storia dell’aeronautica civile mondiale.
Quello diretto dal cineasta statunitense, presentato al 43esimo Telluride Film Festival e in anteprima italiana nella sezione Festa Mobile del 34° Torino Film Festival prima dell’uscita nelle sale nostrane con Warner Bros. il prossimo 1 dicembre, è il resoconto più o meno romanzato dei fatti, non solo dello spettacolare atterraggio d’emergenza nelle acque gelide del fiume Hudson. L’impresa portata a termine dall’ormai noto pilota, manovre e procedure di bordo comprese, trova naturalmente ampio spazio sulla timeline, con la regia di Eastwood e il sostanzioso aiuto della computer grafica a rendere il tutto possibile e visivamente efficace. Sull’efficienza e la pregevolezza della confezione avremmo però messo entrambe le mani sul fuoco, con alcune scene dal forte impatto visivo offerte alle platee di turno che non fanno altro che confermare quanto di ottimo portato sullo schermo in lavori precedenti come Lettere da Iwo Jima, Flags of Our Fathers, Gli spietati, American Sniper o nell’incipit dello tsunami di Hereafter. Se mai ci fosse bisogno di un’ulteriore conferma per quanto concerne la bontà della confezione, allora eccola servita. E se ne avessimo avute altrettante a disposizione, le avremmo messe anche sulla scrittura, con Eastwood e gli sceneggiatori che di volta in volta sono chiamati ad affiancarlo che abitualmente regalano drammaturgie e personaggi stratificati, complessi ed emotivamente coinvolgenti. La forza del suo cinema sta dunque nell’incontro tra la componente spettacolare e quella autoriale, con un mix che gli consente di non dovere per forza di cose sacrificare la seconda a favore della prima. Anche in Sully l’equilibrio tra le suddette componenti non viene meno, anche grazie alla base messa a disposizione dalle pagine del libro autobiografico dal quale il film ha attinto a piene a mani, ossia l’autobiografico “Highest Duty: My Search for What Really Matters”. Qui non si raggiungono le vette toccate in passato, ma la forma e la sostanza in quanto detto e mostrato si percepiscono sin dai primissimi frangenti.
In un film come Sully, però, ad attirare l’attenzione non è tanto la messa in quadro dello spettacolare ammaraggio, piuttosto il lato b, quello meno vistoso ma per quanto ci riguarda più interessante e coinvolgente. Quel qualcosa è la lotta che Sullenberger e il suo co-pilota Jeff Skiles (interpretato da Aaron Eckhart) devono affrontare contro coloro che mettono in discussione il loro operato in quei 208 secondi, che li porterà a misurarsi con le Istituzioni, i media, i pareri discordanti dell’opinione pubblica e persino con se stessi. Ed è proprio lì che lo spettatore dovrebbe andare a cercare il cuore pulsante dell’opera.

Francesco Del Grosso

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