È meglio essere astuto che intelligente
“Non sono intelligente, ma sono astuto. Essere astuto è meglio che essere intelligente. Quando sei intelligente puoi sbagliare, ma non sbagli mai niente quando sei astuto.”
A pronunciare queste parole è Jimmy Savile, verso la fine del documentario che Netflix gli ha dedicato. Personaggio pubblico amatissimo dalla società inglese dopo la sua morte vennero a galla accuse di abusi perpetrati lungo decenni e la sua divenne una delle figure inglesi più infami. Come testimonia del resto il titolo originale della mini-serie, ovvero Jimmy Savile: A British Horror Story.
I due episodi diretti da Rowan Deacon si differenziano da altri prodotti dedicati a criminali seriali da Netflix. Nella maggior parte dei casi si segue in maniera cronologica lo svolgersi della storia, dai primi crimini fino all’arresto con un taglio serrato da poliziesco d’azione. Qui invece, forse anche per la vicinanza temporale con la vicenda, i crimini di Savile sono venuti alla luce solo dopo la sua morte nel 2011, l’impostazione sembra essere più diretta ad indagare la società che lo circondava. Nel primo dei due episodi ci viene mostrata la figura pubblica di Savile, con l’ascesa al successo dell’eccentrico e brillante conduttore di radio e tv e la sua inesausta attività benefica come volontario in ospedale e come organizzatore di raccolte fondi. La seconda, invece, si concentra sull’abisso di orrore celato dietro le luci della ribalta. Ciò che ne esce è il ritratto di una figura nota ed apprezzata per i suoi tratti stravaganti e la sua generosità ma che stranamente lasciava sempre un’impressione di disagio in chi lo frequentava, soprattutto perché, nonostante la bravura di Jimmy nel dissimulare, a tratti la sua personalità profonda veniva alla luce attraverso quelle che venivano all’epoca considerate come battute e gags di puro humour inglese.
C’è un’impostazione di fondo che salta all’attenzione durante la visione dell’opera: sembra partire dal presupposto che lo spettatore abbia nozione del tema trattato; e questo può essere un problema quando a vederlo è qualcuno estraneo alla società britannica. Solo a visione completata si riesce a comprendere davvero il motivo di tale impostazione. Il documentario è un enorme tentativo di esame di coscienza da parte di coloro che incontrarono e frequentarono Savile e non furono capaci di capirne la reale natura. Ora sanno e si interrogano su come abbiano fatto a non sapere prima.
È in effetti un discorso molto chiuso nella società britannica.
La domanda, soprattutto nella seconda parte, risuona sordamente e con insistenza nel sottofondo della storia: come è possibile che nessuno si sia accorto di niente? Eppure alcune denunce ci furono, lettere e segnalazioni arrivarono alla polizia competente; e allora perché? Perché, come ebbe a dire, Savile era furbo, era famoso e fece in modo di avere amici influenti, anche all’interno della polizia, che potessero proteggerlo, non perché fossero corrotti, ma semplicemente perché era uno di loro.
La celebrità è un potente afrodisiaco e Jimmy Savile seppe usarla per creare intorno a sé una nube che impedisse di vedere l’orrore che stava scrivendo nella storia britannica recente.
Luca Bovio