Una vita in tanti capitoli
Una prima immagine, in aspect ratio 4:3, con quei graffi tipici, di una volta, della pellicola consumata, apre Oh, Canada, l’ultimo lavoro di Paul Schrader, tratto da un’opera di Russell Banks (“Foregone”, in italiano I tradimenti che sarà anche il titolo del film per la distribuzione nostrana) in concorso a Cannes 2024. Una troupe televisiva si reca a casa di un celebre documentarista, minato da un cancro in fase terminale, per registrare l’intervista sulla sua carriera e sulla sua vita. La prima immagine a essere vista dell’intervistato, Leonard Fife, è una foto divistica di Richard Gere dei tempi d’oro, quando l’attore hollywoodiano era al culmine della sua affascinante bellezza, tanto da interpretare il gigolò americano per lo stesso Schrader. Oh, Canada è in effetti una grande riflessione sulla senescenza e sulla fine dell’esistenza, e sul cinema come registrazione, e ricordo, della vita e volendo superamento della morte, dove un attore culto come Gere fornisce il corpo al personaggio di Leonard Fife, in diverse fasi della sua esistenza. C’è il Gere giovane e bellissimo di cui sopra, solo in quel quadretto, c’è quello pesantemente truccato per interpretare Fife in fase terminale e quello di oggi, senza particolari trucchi mimetici, che incarna un’idea del personaggio atemporale, che prende le sue fattezze a volte nei flashback sostituendolo all’attore, Jacob Elordi, che invece interpreta il personaggio da giovane nei momenti più realistici.
La consistenza da pellicola esibita all’inizio enuncia quella sarabanda di formati e fotografie che costellerà l’opera al dipanarsi del suo andirivieni temporale, toccando i punti salienti del racconto della vita del protagonista, da lui stesso narrato agli intervistatori. All’inizio del flashback, nel 1968, il formato diventa improvvisamente anamorfico con una fotografia un po’ sbiadita come nelle immagini tipiche dell’epoca, con una grana da definizione bassa, forse 16mm, con il suo senso fotografico e le sue tecniche tipiche di ripresa. Si può passare dal colore d’epoca al bianco e nero come succede in una scena di sesso. E poi ci sono anche i filmati interni d’epoca, quelli sull’agente Orange, che possono ricordare, tra le altre cose alcune sperimentazioni in pellicola di Stan Brakhage. Oppure quelli truculenti delle uccisioni delle foche, che sono i veri filmati di denuncia fatti da attivisti ecologisti che denunciavano la crudeltà della caccia ai pinnipedi per la loro pelliccia facendo maturare una sensibilità animalista. Un esempio di come un reportage filmato possa influenzare l’opinione pubblica e la realtà. Non c’è una regola che stabilisca il criterio dell’adozione di un formato piuttosto che un altro, come della immagine del Richard Gere di oggi piuttosto che di Elordi nell’incarnare il giovane Leonard Fife.
Paul Schrader riprende la formula usata per Mishima – Una vita in quattro capitoli, dove la vita del grande scrittore giapponese veniva messa in scena alternandola a rappresentazioni di alcune sue opere letterarie, squadernando scenografie e fotografie diverse, e anche un film nel film, quello diretto dallo stesso Mishima. Con Oh, Canada il regista costruisce un analogo castello di scatole cinesi ma su un personaggio che è da un lato finzionale e dall’altro non è un creatore di opere di finzione bensì un documentarista. Tutto il film in effetti si gioca su vari livelli di adesione alla realtà, di documentare il mondo. Schrader mette in scena una fiction su un documentario su un documentarista. Il lavoro è estremamente teorico tanto da mettere in scena, nelle lezioni che tiene lo stesso Fife, l’enunciazione del pensiero e delle elaborazioni di Susan Sontag nel suo saggio seminale On Photography. Nell’allestimento del set dell’intervista, Schrader mostra per esempio i pezzi di scotch messi sul pavimento, per segnare le posizioni delle camere e delle sedie, un po’ come su un palcoscenico teatrale quando si fissano le posizioni degli attori della rappresentazione. E la dimensione teatrale conferisce un ulteriore carattere finzionale al racconto del passato del protagonista. In fondo si dice espressamente nel film che il passato è di per sé una finzione. E in ogni caso i ricordi di un uomo in quelle condizioni possono essere fallaci per quanto lui sia mosso da un desiderio di confessione.
L’autore dell’intervista, a capo della troupe, è proprio un allievo dello stesso Fife, chiamato così a registrare gli ultimi momenti di vita del suo maestro. Sarà tentato di “immortalare”, pornograficamente, anche il momento stesso della sua morte. La troupe usa per le riprese una speciale camera truccata di cui lo stesso Fife è stato un pioniere, una sorta di teleprompter che ricorda l’Interrotron di Errol Morris. Oh, Canada è la storia di un grande inganno, quella di un uomo che ha passato la vita a documentare il reale, fornendo un’immagine fasulla di sé, propugnando la sua vita come una fiction. Così come è vicino il confine tra Stati Uniti e Canada, è estremamente labile la linea di demarcazione tra realtà e finzione. Ma la fuga di Fife in Canada è una fuga dalla realtà e Schrader pare voglia dirci che non esista che la finzione al cinema, che ogni inseguimento del reale con la macchina da presa non possa che rivelarsi fallace e fasullo.
Giampiero Raganelli









