Il disegno dell’anima
Può un film essere bandito ancora prima che per i contenuti per il titolo con il quale è stato battezzato dal suo autore? La censura a certe latitudini ha fatto molto ma molto di peggio, ma nel caso dell’ultima fatica dietro la macchina da presa di Ravi Jadhav, considerato dalla critica e dagli addetti ai lavori come uno dei registi di punta nel cinema marathi degli ultimi dieci anni, si sfiora il ridicolo. Impedire a Nude di circolare liberamente nel circuito festivaliero nazionale per via di un titolo che a conti fatti dice tutto e non dice nulla è una cosa che non sta né in cielo né in terra per quanto assurda sia. Eppure è accaduto, ma ciò non ha impedito al film di trovare occasioni di visibilità al di fuori dei propri confini, tra cui quella offerta dalla direzione del River to River Florence Indian Film Festival che lo ha voluto nella rosa dei lungometraggi in concorso alla 18esima edizione.
Nude ci conduce al seguito di Yamuna, una donna che vive in un piccolo villaggio con il marito e il figlio di 12 anni. L’uomo però li abbandona entrambi per un’altra donna, quindi Yamuna è l’unica a sostenere economicamente la famiglia. Lasciata senza alternative, si trasferisce a Mumbai con il figlio e l’unico lavoro che trova è quello di modella in una scuola d’arte. Come ogni madre, anche Yamuna sogna in grande per il suo unico figlio e vuole che diventi una persona di successo nella vita: la donna farà qualunque cosa per realizzare il suo sogno.
È chiaro già dalla sinossi, così come lo sarà dalla visione dei primi minuti, che ci troviamo al cospetto di una pellicola il cui racconto non ha assolutamente nulla di così scabroso o provocatorio, tantomeno volgare, da impedirne addirittura la diffusione. Perché quella di Jadhav ancora prima di essere una riflessione sul corpo senza veli in una cultura che lo demoninizza, offerto alla causa artistica in un’area geografica dove la minaccia di una regressione della libertà di espressione sta diventando sempre più concreta, è la storia dell’esistenza di una donna forte e coraggiosa in una società che cerca in tutti i modi di emarginarti e metterti all’angolo. Tema sempre attuale, a maggior ragione oggi che le ragioni e i movimenti spontanei nati nel ventre del #MeToo hanno e stanno scoperchiando il vaso di Pandora. Nello specifico, la Yamuna di Nude si trova a subire vessazioni, continue umiliazioni e violenze dentro e fuori dalle mura domestiche, dalle quali fugge per concedere a se stessa e a suo figlio una seconda possibilità e la speranza di un nuovo inizio. Il che fa consente al film di ampliare i propri orizzonti drammaturgici e narrativi a temi universali come il riscatto personale, i legami biologici e il sacrificio inteso come atto d’amore incondizionato di una madre nei confronti del figlio.
Ma il vero baricentro intorno al quale si sviluppa e si irradia il plot è una riflessione sull’Arte focalizzata sull’incontro traArte e vita, che nel film del cineasta di Mumbai si fondono per dipingere il ritratto di una figura femminile che ha scelto un lavoro anticonvenzionale per sfidare il pregiudizio comune. Un ritratto, questo, che regala alla platea di turno un ventaglio di emozioni cangianti, veicolate in modalità randomonica attraverso le diverse sfumature del dramma (da quello familiare a quello esistenziale e sociale, sino alla tragedia) e con qualche tocco di humour nei dialoghi a smorzare di tanto in tanto la temperatura. Ed è con questa gamma di colori presenti sulla tavolozza che Jadhav ha lavorato prima in fase di scrittura e poi in quella di messa in quadro. In questo modo, il fruitore si trova a fare i conti con scene che alternano un forte realismo (il pestaggio in casa subito da Yamuna da parte del marito e il litigio della protagonista con il figlio) ad altrettante nelle quali le violenze fisiche e verbali lasciano spazio ad una trasfigurazione pittorica con autentiche pennellate di lirismo e poesia che si materializzano nella composizione delle singole immagini (vedi le due sequenze ambientate sulla spiaggia, l’incipit o la corsa nel campo di bamboo). Merita un plauso a parte l’intensa, dolorosa e toccante performance attoriale di Kalyanee Mulay nei panni di Yamuna, che ha nella scena della prima posa davanti agli studenti un meraviglioso e indimenticabile assolo. Peccato solo per quel finale di troppo assolutamente superfluo nell’economia globale del film.
Francesco Del Grosso