Una lezione d’attore
La congregazione degli attori-feticcio di Ingmar Bergman non è stata un circolo esoterico e omologante. Ha favorito scambi, esportato talenti, esaltato le soggettività. Paradigmaticamente, le due personalità maschili di maggior successo internazionale seguirono rotte affatto differenti. Se Max von Sydow, con esiti sempre brillanti, non ha rifuggito coloriture pop, Erland Josephson che, oggi, compirebbe cent’anni, è rimasto assai più fedele a un ideale di cinema autoriale, pensoso, introspettivo, votato alla drammaticità. Rifiutò Lo squalo, per intendersi. E preferì lasciarsi intagliare addosso la maschera di un esistenzialismo inquieto e contrito. Maschera che, in Bergman, non è solo l’ingrediente iconografico imprescindibile di una filmografia zeppa di close-up e di sguardi in macchina, ma, si rilegga Lanterna magica, si riveda Il volto, il fulcro di una riflessione ontologica. È, sì, il portale d’accesso all’interiorità, ma un portale sbarrato. Perché è la maschera, indossata dall’individuo, a preservarne, come la buccia la polpa del frutto, il vero sé, quanto l’anima sarebbe costretta a cedere nel confronto con l’altro. E la maschera di contegno luterano che Josephson ha saputo sostenere ha la maestà di un fiordo scandinavo plasmato dal vento e dai flutti, dalle cui crepe escono gli zampilli di una vivida intelligenza e, soprattutto, le essudazioni di un dolore atavico. L’essenza dell’uomo. Almeno per Bergman.
Morto il 25 febbraio 2012 allo stremo di una convivenza indesiderata con il morbo di Parkinson, Josephson era nato a Stoccolma, in una famiglia della borghesia intellettuale, e aveva mosso i primi passi performativi, giovanissimo, nella compagnia universitaria. Che sia stato anche scrittore, produttore e, occasionalmente, filmmaker ha un’importanza relativa, perché è l’attore, con la sua gestualità compassata, la voce profonda, una recitazione più rattenuta che straniata, ad aver conquistato l’immortalità della fama, sugli schermi del pianeta intero e sui patrii palcoscenici, con un nobile repertorio fatto di Shakespeare, Molière, Gogol’, Sartre, naturalmente Ibsen e Strindberg, spesso sotto la guida registica dello stesso Bergman, subentrando al quale Josephson è stato, dal ‘66 e per circa un decennio, direttore del Teatro Reale Drammatico di Stoccolma.
Insomma, il connubio artistico tra il genio di Uppsala e il ragazzo della capitale non principiò sui set, ma lì toccò l’acme. Indimenticabile la scena di Sussurri e grida (Viskningar och rop, 1972) in cui Josephson e Liv Ullmann sono davanti allo specchio. Lui è il medico di famiglia, lei una dama malmaritata. Tra loro, vi è stata una relazione clandestina. E, ora, lui, osservando il pallore dell’incarnato, lo sguardo sfuggente, le piccole rughe di lei, traccia un’analisi semiologica dell’infelicità dell’interlocutrice e della maschera (!) di distacco che costei ha forgiato. È un tipo disincantato e un po’ sprezzante, il dottore, come già lo era stato l’architetto di Passione (En passion, 1969), un algido anch’egli, il cui cinismo lo proteggeva dalla sofferenza di chi gli era vicino e da una tensione destinata ad assumere, nel villaggio isolano, proporzioni incendiarie. Ancor prima, nel ‘58, freddezza e arrivismo avevano connotato anche il dignitario di corte del sopra citato Ansiktet, alias Il volto, con l’aggravante di una scaltra propensione all’intrigo, a scopo più fornicatorio che politico. Su un diverso registro, la condivisione, ancora con Ullmann, di un lungo copione di umori e malumori familiari, adulterio, divorzio, sesso post-coniugale sortiva, nel ‘74, la miniserie di culto Scene da un matrimonio (Scener ur ett äktenskap), nel cui sequel, il cupo e disperato Sarabanda (Saraband, 2003), il pubblico avrebbe ritrovato i due personaggi e i relativi interpreti. Solo un cammeo nel velenosamente femminile Sinfonia d’autunno (Höstsonaten, 1978), nei panni del padre dolce e remissivo della protagonista, evocato in un flashback, e un ruolo secondario, per quanto incisivo, anche in Fanny e Alexander (Fanny och Alexander, 1983), quello del vecchio zio che, con le sue storie mirabolanti, eccita la fantasia suscettibile del piccolo Alexander. Molto più spazio avrà, in Vanità e affanni (Larmar och gör sig till, 1997), la figura dell’insano di mente che, angustiato dagli stessi rovelli filosofici sulla libertà umana che affliggevano Bergman, contribuisce alla messinscena, filmata e dal vivo, del precoce declino di Franz Schubert.
Gli anni Settanta lanciarono Josephson ovunque e, di lui, si invaghirono anche molti maestri italiani. Liliana Cavani, per cominciare, che, in Al di là del bene e del male (1977), lo trasforma in un “Fritz” Nietzsche irrequieto, fascinoso, innamorato e, imboccata la via della rovina, lugubre, allucinato, pazzo, finito. Sempre nel ‘77, Damiano Damiani, in Io ho paura, gli affida il ruolo commovente del giudice che sente la morte incombere su di sé. Barca contro corrente, risospinta senza posa nel passato, Josephson è, nel mélo di Franco Brusati Dimenticare Venezia (1979), un individuo crepuscolare isolato nella campagna veneta, in balìa di ricordi malandrini e avvolgenti. Carlo Lizzani, per due volte, cala lo svedese nelle spelonche dell’inconscio e nelle complicazioni del suo studio, falso psichiatra, dedito a trattamenti macabri, nel curioso La casa del tappeto giallo (1983), primario di Carl Gustav Jung in Cattiva (1991). Se, poi, lo sceneggiato di Luigi Magni Il generale veste l’attore da Camillo Benso, conte di Cavour, nello stesso anno, il 1987, Il giorno prima di Giuliano Montaldo ne fa il progettista che, coinvolto, con altri, nella simulazione della vita in un rifugio antiatomico, prende invano la leadership morale quando la situazione degenera.
In fondo, ambientato e girato in Italia è anche Nostalgia (Nostalghia, 1983), primo accostamento di Josephson all’immaginario sublime di Andrej Tarkovskij. Il secondo, tra paesaggi iperborei, sarebbe stato, nel ‘86, Sacrificio (Offret). Due occasioni perfette per riaffermare un’autorevolezza interpretativa già nota, che, senza esuberi retorici, rifulge nel confronto con un verbo cinematografico zenitale, si tratti dei soliloqui misticheggianti di un folle in dialogo con l’assoluto o di promesse metafisiche il cui coerente mantenimento finisce per dare senso a un’esistenza altrimenti spenta.
L’ostinazione morale del protagonista di Sacrificio ha molto, dopo tutto, del rigore estetico e professionale di Josephson che, se Bergman e Tarkovskij non bastassero, fu diretto anche da István Szabó, Peter Greenaway e, perfino, Theo Angelopoulos. Anzi, fu proprio il regista greco a donargli una parte che, oggi, appare testamentaria, anche se pensata per Gian Maria Volontè: quella del conservatore della cineteca di Sarajevo nello struggente Lo sguardo di Ulisse (To vlemma tou Odyssea, 1995). Il custode, in altri termini, di una sapienza audiovisiva che è cultura e civiltà, un presidio di bellezza nell’infuriare bellicoso della Storia. Uno che può sbronzarsi, disilluso, in una notte di abbandono, ma sa ciò che conta. Come, d’altronde, lo sapeva Erland Josephson che, dall’alto del suo secolo incompiuto, continua a impartire la sua intensa lezione.
Dario Gigante