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Non voglio perderti

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VOTO: 9

Scambio di persona

Lo scorso 29 settembre, esattamente una settimana fa, ha avuto inizio la seconda edizione della speciale rassegna, “L’eterna illusione”, curata da Cesare Petrillo e Simone Fabio Ghidoni per le sale di Circuito Cinema. Il focus di questa nuova, preziosa retrospettiva è sui migliori noir americani realizzati tra il 1941 e il 1957, in versione originale sottotitolata restaurata e digitalizzata. E vi era proprio un Cesare Petrillo visibilmente infervorato a introdurre la prima matinée prevista al Quattro Fontane di Roma, che ha avuto peraltro uno strepitoso successo di pubblico. Oggetto del recupero di giornata un film assolutamente da riscoprire, Non voglio perderti (No Man of Her Own, 1950), vera e propria chicca cinefila nonché scelta tutt’altro che scontata o banale per aprire una rassegna simile, in quanto titolo non tra i più noti in programma e legato inoltre a un regista, Mitchell Leisen, che si è soliti ricordare più per commedie come Un colpo di fortuna (1937) o per qualche originale melodramma, vedi ad esempio La porta d’oro candidato nel 1942 all’Oscar sia come Miglior Film che per l’interpretazione sfavillante di Olivia de Havilland. Una proposta per certi versi anche spiazzante, come questa, ha comunque ricevuto un’accoglienza calorosissima da parte dei cinefili ivi convenuti, tra i quali abbiamo incrociato pure quel Giulio Base che ha da poco preso le redini del Torino Film Festival.

Oggi, 3 ottobre, “L’eterna illusione” prosegue al Quattro Fontane proponendo un altro cult movie, Il romanzo di Mildred con protagonista Joan Crawford e Michael Curtiz alla regia. Ma intanto vorremmo esplicitare meglio le ragioni per cui il precedente Non voglio perderti ha rappresentato per molti di noi una rivelazione. Pellicola raffinata ed elegante ma animata al contempo da una sensibilità molto moderna.
C’è da dire intanto che Mitchell Leisen, abituato a padroneggiare con disinvoltura il registro della commedia, sa indirizzare da subito il pubblico verso quell’alone di empatia e di calore umano che circonda la protagonista, Helen Ferguson, impersonata dalla grande Barbara Stanwyck con un fascino assai discreto, “contenuto”, presente anche in quegli sguardi turbati che del suo personaggio già dicono tanto.
Rievocate come da tradizione in un lungo flashback, le vicissitudini di una Helen costretta dai casi della vita ad accettare il ruolo della defunta “signora Harkness”, per ragioni di mera sopravvivenza, sembrano poi introdurre un topos da “commedia degli equivoci” nell’atmosfera plumbea e ansiogena del lungometraggio.

Di fondo vi sono del resto un’aura di tensione e una tetra concatenazione di eventi, in cui si inseriscono sia la precedente disperazione esistenziale di Helen, incinta di un poco di buono che l’ha poi abbandonata senza troppi complimenti, sia il fortuito incontro in treno con una coppia di deliziosi sposini, desiderosi di porla sotto la loro ala protettrice. Pare però che il Fato abbia per loro altri progetti. I coniugi Harkness periscono infatti in quello stesso spaventoso incidente ferroviario, descritto da Mitchell Leisen con poche, magistrali inquadrature, dal quale invece Helen si salva. Vedendosi poi costretta dalle circostanze ad accettare un incredibile scambio di persona e una nuova identità. Il gioco sembra reggere, in qualche modo, fino a quando un Destino ancora una volta beffardo si materializzerà di fronte a lei, nei panni di quell’ex privo di qualsiasi morale…
Uno script pieno di risvolti rocamboleschi è per il navigato cineasta americano il valido canovaccio che gli consente, da un lato, di esplorare la personalità angosciata e ipersensibile della sua protagonista (spesso ritratta con quei classici tagli di luce che vanno a isolare sguardi tremolanti e sorrisi forzati), dall’altro di rielaborare la componente noir del racconto alla luce di una tragicomica e insolente ironia. Tant’è che il paradossale epilogo, con una per molti versi inaspettata conclusione del conflitto fino ad allora delineato, è destinato a soddisfare magnificamente i cultori del giallo riassemblando al contempo, seppur lungo un percorso particolarmente travagliato e attraversato da ombre, i pezzi restanti della tradizionale famiglia americana, come neanche la più classica delle commedie avrebbe potuto fare.

Stefano Coccia

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