In viaggio costante
Esistono opere che già sulla carta alzano l’asticella delle aspettative per cui, quando ci si siede sulla poltroncina della sala, ci si deve sforzare di sgomberare la mente e lasciare da parte anche i ‘pregiudizi positivi’. Nomadland di Chloé Zhao è un film che entra, fotogramma dopo fotogramma, a ogni chilometro percorso e a ogni stop, nelle viscere della platea di turno. Il merito non va ‘solo’ alla protagonista, Fern (interpretata da Frances McDormand, il cui volto comunica in ogni piega del viso e anche nei lineamenti più duri cos’ha dentro al cuore), ma è anche di un paesaggio che diventa una metafora interiore, oltre ad avere un grande impatto fisico.
Dopo il crollo economico di una città aziendale nel Nevada rurale, Fern carica i bagagli nel suo furgone e si mette sulla strada alla ricerca di una vita al di fuori della società convenzionale, come una nomade dei tempi moderni. Non è semplice per lei lasciare ‘quegli anni’, quel luogo ai limiti dove ha condiviso l’esistenza col marito (scomparso per malattia), per provare a ricominciare senza sapere precisamente da dove. Il primo istinto è quello della sopravvivenza e non è un caso che ‘scelga’ di andare a lavorare (per un tempo ben definito) nell’azienda di Amazon, dove tutto è un procedimento ben collaudato e lei è un tassello di una catena. Se da un lato lo fa per mettere da parte i soldi; dall’altro ci sembra che abbia deciso per un mestiere che le occupi (apparentemente) la mente – non potendosi distrarre dall’ingranaggio.
La nostra protagonista è stata indurita dall’esistenza ed è proprio lo stare per strada, senza più un tetto sopra la testa che la rassicura e, al contempo, la costringe a mettersi in discussione.
Va evidenziato che al film hanno partecipato dei veri nomadi, come Linda May, Swankie e Bob Wells, in veste di guide e compagni della donna attraverso i vasti paesaggi dell’Ovest americano.
«Nell’autunno del 2018, mentre giravo Nomadland a Scottsbluff (Nebraska), vicino a un campo ghiacciato di barbabietole, mi ritrovai a sfogliare ‘Desert Solitaire’ di Edward Abbey, un libro che mi aveva regalato qualcuno incontrato sulla strada. Sfogliandolo incappai in questo passaggio: “Gli uomini vanno e vengono, le città nascono e muoiono, intere civiltà scompaiono; la terra resta, solo leggermente modificata. Restano la terra e la bellezza che strazia il cuore, dove non ci sono cuori da straziare… a volte penso, senz’altro in modo perverso, che l’uomo è un sogno, il pensiero un’illusione, e solo la roccia è reale. Roccia e sole” (Edward Abbey, Desert solitaire. Una stagione nella natura selvaggia, trad. Stefano Travagli, Baldini & Castoldi, 2015). Per i successivi quattro mesi, mentre ci spostavamo per girare il film, fu un continuo andirivieni di nomadi; molti di essi conservavano rocce raccolte durante le peregrinazioni a bordo delle loro case su ruote alimentate dal sole. Dispensavano storie e saggezza davanti e dietro l’obiettivo della telecamera. Essendo cresciuta in città cinesi e inglesi, sono sempre stata profondamente attratta dalla strada aperta, un’idea che trovo tipicamente americana: la continua ricerca di ciò che sta oltre l’orizzonte. Ho tentato di catturarne uno scorcio in questo film, sapendo che non è possibile descrivere veramente la strada americana a un’altra persona. Bisogna scoprirla da soli», ha dichiarato la regista cinese, molto attiva nel cinema indipendente statunitense.
Ecco Nomadland riesce proprio in questo: pur attraversando terre magari lontane da quelle a noi familiari (se non appartenenti al nostro immaginario), è come se ci suggerisse di andare oltre, cercare anche noi un nuovo orizzonte, senza però superare un limite che ci forzi – in questo la protagonista è molto incisiva (più con le azioni che con le parole). In meno di due ore di lungometraggio, lo spettatore tocca con mano lo smarrimento così come la sicurezza trasmessa dalle piccole certezze, la luce nostalgica negli occhi di chi ha perso dei ‘pezzi’ per strada e quella rinnovata di chi non vuole cedere. Lo sguardo della Zhao si sente tutto perché, da non nativa americana, sa cosa voglia dire sentirsi ‘straniero’, cercare il proprio posto nel mondo, ascoltare la terra che scorre sotto i propri piedi e abbattere i confini (compresi quelli mentali).
Nomadland, basato sull’omonimo racconto di inchiesta di Jessica Bruder, dove «ogni giorno in America, il Paese più ricco del mondo, sempre più persone si trovano a dover scegliere tra pagare l’affitto e mettere il cibo in tavola. Di fronte a questo dilemma impossibile, molti decidono di abbandonare la vita sedentaria per mettersi in viaggio. In un mondo in cui basta un ricovero in ospedale al momento sbagliato per mandare in fumo i risparmi di una vita, in cui la previdenza sociale è praticamente inesistente e il peso dei debiti spinge molti alla disperazione, donne e uomini in età da pensione hanno iniziato a migrare da un lato all’altro del Paese attraverso i mezzi di trasporto più vari, tra un lavoro precario e l’altro» (dalla scheda del libro – Edizioni Clichy).
Innegabilmente in questa trasposizione della Zhao si avverte lo sguardo femminile, complice anche la decisione di puntare l’occhio della macchina da presa, in particolare, su una donna che porta sul corpo e nell’anima i segni del tempo, le ferite di un quotidiano che non è stato clemente, eppure, nonostante tutto, c’è qualcosa in lei che la fa essere generosa, attenta all’altro fino a scoprire che la priorità deve essere il suo star bene (tanto da non cedere, ad esempio, alla ‘promessa’ del focolaio). A punteggiare i momenti di stop, ripartenza e ancora del lasciarsi andare ci pensa il lirismo inconfondibile delle note di Ludovico Einaudi.
Nomadland ha vinto meritatamente il Leone d’Oro alla 77esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Maria Lucia Tangorra