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Nel nome dell’odio

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VOTO: 7,5

Teste rasate entrate nel Mito

Il ricordo dell’evento è forte. Notevole anche il valore del documentario in questione. E il film intorno al quale ruota il documentario stesso, Teste rasate di Claudio Fragasso, merita di essere ricordato più spesso, poiché nel panorama non sempre esaltante del cinema italiano degli anni ’90 seppe rappresentare un punto di rottura, un provvidenziale cortocircuito tra l’immaginario dell’epoca, la cronaca spiccia e il saper stare sul set. Ci sono quindi molteplici motivi per parlare, anche a distanza di qualche settimana, del così denso, riuscito documentario firmato da Federico Caddeo, Nel nome dell’odio, la cui proiezione ha avuto luogo lo scorso 9 maggio all’Anica. E tra tali ragioni vi è senz’altro quell’emozione, serpeggiante in sala, dovuta alla recente scomparsa della sceneggiatrice del cult anni ’90 e – soprattutto – compagna di vita del regista. Rossella Drudi, alla quale è idealmente dedicato il documentario.

Tra l’altro, se all’anteprima del 9 maggio hanno presenziato diversi alfieri del cinema indipendente italiano (soprattutto quello di genere), come gli attori Gianni Franco e Guglielmo Favilla, oppure il regista Raffaele Picchio, grossa sorpresa ha destato la presenza di Sean Baker, premio Oscar dai modi umili e cortese con tutti, del quale stando a pochi passi abbiamo intercettato parole di sincero cordoglio rivolte a Fragasso, per la perdita dell’amata compagna, unite a un altrettanto genuino apprezzamento per il suo lavoro, così come esce fuori dal documentario di Federico Caddeo.
Documentario, ma in primo luogo documento: articolata testimonianza, cioè, del fatto che una pellicola come Teste rasate abbia saputo incidere in profondità nella cultura di massa, generando reazioni scomposte e incomprensioni a destra ma ancor più a sinistra; laddove nella critica cinematografica della “rive gauche” imperversavano (e in certi casi, purtroppo, ancora oggi imperversano) soggetti talmente ideologicizzati, da non saper leggere tra le righe e quindi comprendere tutta la problematicità, l’acume, il piglio da antropologi, di cui invece Claudio Fragasso e Rossella Drudi si erano fatti forti, nel portare sullo schermo l’inquietante fenomeno dei naziskin e la sua dirompente crescita nelle periferie non soltanto italiane.

Ben dosato, equilibrato, in quel continuo pescare tra materiali di repertorio e interviste più recenti, Nel nome dell’odio scava nella carne viva del film estrapolandone i significati e i significanti più profondi, di pari passo con un’aneddotica riguardante il set tanto disinvolta, spigliata, da risultare a tratti irresistibile.
Nel circoscrivere l’aura mitica di tale lungometraggio, lo sguardo di Federico Caddeo si posa poi volentieri sugli attori, in particolare Giulio Base e Gianmarco Tognazzi, attorniati da qualche altro nome importante come pure da veri skinheads arruolati avventurosamente per le riprese, lasciando intendere quale rilievo abbia avuto un set del genere per le carriere e per la formazione dei due interpreti principali, usciti vittoriosi da una sfida tutt’altro che facile.

Stefano Coccia

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