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Mon amour, mon ami

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VOTO: 7

Il bivio dei sentimenti

Nonostante siano trascorsi due anni dall’anteprima mondiale nella sezione “Orizzonti” alla 74esima Mostra di Venezia, il cammino festivaliero e i riconoscimenti per Mon amour, mon ami sembrano proprio non volere finire. La riprova sta nella recente vittoria del premio per il miglior documentario alla seconda edizione del Saturnia Film Festival, laddove il cortometraggio di Adriano Valerio è approdato dopo un lungo e fortunato percorso nel circuito festivaliero internazionale che ha toccato tappe importanti oltre a quella lidense come Toronto e Palm Springs. Del resto, quando un’opera ha nel DNA i geni di qualcosa di duraturo ed è come in questo caso portatrice sana di tematiche dal peso specifico rilevante e un bel carico di emozioni non artificiose, allora il tempo diventa assolutamente relativo. Ce lo dimostra lo short firmato dal cineasta milanese, qui alle prese con un’intensa e ambigua storia d’amore tra una coppia prossima al matrimonio “struggente fotografia dell’eterna ricerca della felicità dell’essere umano, tanto più vittima della propria esistenza, quanto più bisognoso della ‘normalità’ di un rapporto affettivo”.
La storia in questione è quella di Daniela e Fouad, una donna e un uomo che vivono a Gubbio, ma vengono entrambi dal mare, Bari lei, Casablanca lui. Si sono incontrati per caso, accomunati da una vita difficile e fuori dalle regole, che ha lasciato un segno indelebile. Prendendosi cura l’uno dell’altra è nata un’amicizia profonda e guaritrice. Adesso che Fouad ha bisogno del permesso di soggiorno, un matrimonio sembra la soluzione più semplice. Daniela è d’accordo. Ma a un passo dalle nozze, l’ambiguità dei sentimenti di lui comincia a turbarla. Si può sposare per finta qualcuno che ti ama davvero?
La risposta non è detto che verrà, ma il cammino tortuoso che porta o no a questa delicata decisione rappresenta il cuore pulsante di Mon amour, mon ami e del passato lavoro sulla breve quanto sulla lunga distanza di Valerio. In tal senso i rapporti affettivi e le complesse dinamiche che li regolano hanno da sempre alimentato la filmografia del cineasta meneghino, da 37°4 S sino all’opera prima Banat. Il risultato è al contempo un’immersione intima nelle sfere quotidiane di due solitudini e un ritratto polifonico che ci conduce per mano nel tessuto emozionale di una relazione sentimentale che prova – riuscendoci – a sfidare le convenzioni e la morale a buon mercato. E per farlo la macchina da presa pedina, osserva e si mette in ascolto, dando alle parole, ai silenzi, agli sguardi, ai gesti e alle attese, il compito di completare un quadro di intensa e rarefatta bellezza.

Francesco Del Grosso

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