Il segreto nella cripta
L’Avati ingannatore. La provocazione de Il signor Diavolo nasce e muore nell’incipit, in quella culla dove un neonato/a troverà una barbara fine per mano (o meglio bocca) di un ragazzino. Una falsa pista, uno specchietto per allodole di un regista tuttora desideroso di giocare con le aspettative del pubblico contemporaneo, in prevalenza giovane, che da un horror “pretende” sangue e colpi di scena a ripetizione. Ovviamente non sarà accontentato, se non in piccolissima parte. Perché Il signor Diavolo non è un’opera di fruizione epidermica ma di dettagli. Un lungometraggio che ricalca con fedeltà quasi assoluta lo schema narrativo del celeberrimo La casa dalle finestre che ridono (1976), con un giovane privo di esperienza costretto a confrontarsi con misteri e poteri decisamente più grandi di lui. E, segno del tempo trascorso, con Lino Capolicchio, all’epoca imberbe protagonista del film appena citato, trasportato a viva forza per motivi anagrafici nella metaforica parte divergente della barricata.
Avati si diverte. Avati prende bonariamente in giro. Se stesso ed il suo cinema passato. Soprattutto un’Italia che è figlia indegna di quella raccontata ne Il signor Diavolo, peraltro già criticata in modo evidente anche se sempre attraverso il suo riconoscibile filtro nostalgico. Siamo infatti nel 1952. Le ferite della guerra stentano ancora a rimarginarsi. Il paese osserva il progresso con la massima diffidenza possibile. Persistono il bianco ed il nero. Non le sfumature. Il Veneto per l’appunto “bianco” – inteso in senso politico, come storico feudo democristiano – viene scosso da una serie di morti misteriose. Il presunto colpevole è considerato un quattordicenne di nome Carlo, chierichetto accusato di aver ucciso oltre le effettive intenzioni Emilio, un coetaneo dalla dentatura mostruosa e perciò ritenuto posseduto dal demonio. Ragazzo a propria volta incolpato dell’infanticidio mostrato nel prologo. Ad indagare viene inviato il giovane ispettore del Ministero di Grazia e Giustizia Furio Momentè (un Gabriele Lo Giudice eccessivamente monoespressivo), il quale si troverà di fronte un muro di superstizioni e omertà in cui la componente ecclesiastica eserciterà un ruolo a dir poco decisivo.
Al cattolico senza certezze Pupi Avati, è cosa nota, piace scherzare con i santi. Del diavolo in senso lato, inteso come mera entità esoterica, come scontato nel film non vi è traccia. Evidente è invece la saldatura tra componente politica e istituzione religiosa, fattore che conferisce a Il signor Diavolo un peso specifico di indubbio interesse. La fotografia desaturata del fido Cesare Bastelli rende benissimo l’atmosfera plumbea ed opprimente che avvolge un’indagine dall’esito già scritto. Perché Il signor Diavolo risulta alla fine un giallo autentico tinto di gotico, una sorta di deriva esistenziale che muove verso un finale forse scontato dove è il percorso a contare più dell’approdo; sebbene quest’ultimo venga arricchito da un twist di angoscioso impatto come da abitudine avatiana. Il ritmo diegetico è desueto, almeno per l’oggi, prendendosi tutti i tempi possibili ed immaginabili. Eppure restano impresse nella retina spettatoriale momenti di grande sollecitazione emotiva, tipo il calpestamento più o meno accidentale della sacra ostia durante una funzione da parte dell’adolescente Paolino, amico di Carlo e anch’egli destinato ad entrare nella tragedia generale dalla porta principale. Momentum narrativo che provoca una reazione “esemplare” della parte cattolica che assiste al fatto. Del resto il diavolo non può che essere un’invenzione umana, uno spauracchio agitato tra la folla al fine di mantenere una posizione di potere grazie alla paura indotta nella gente. Accadeva allora, succede anche adesso. Cambiano le modalità ma il sacro timore (dell’altro, del cosiddetto estraneo e “diverso”) rimane uno strumento di propaganda formidabile, nonché di sicura presa popolare. Pupi Avati, come premesso, non dissimula un certo rimpianto per quei tempi in cui tutto era più chiaro, più facilmente intellegibile; però il punto d’arrivo ad una verità inconfutabile resta esattamente il medesimo: il Male è un parto squisitamente e unicamente umano, alligna dentro di noi dalla notte dei tempi in attesa che qualcuno lo mostri, novello illusionista, nella sua colpevole interezza.
Il signor Diavolo, facendo suo tale assioma, dimostra al di là di ogni dubbio come l’ultraottantenne Avati abbia ancora molto da dire in materia. La sua ultima fatica cinematografica non raggiungerà i livelli d’inquietudine, almeno a livello figurativo, di altri suoi lavori tipo anche Zeder (1983), oltre al già menzionato La casa dalle finestre che ridono. Tuttavia si tratta di un’opera stratificata che arriva al momento giusto. Poiché i grandi uomini di cinema – e Avati, a maggior ragione in una dimensione nazionale, lo è di sicuro – sanno sempre quando è il momento di lasciare la propria, graffiante, impronta.
Daniele De Angelis