Profondo Sud
Almeno stavolta il tempo trascorso è stato effettivamente galantuomo, nel caso del film Mississippi Burning – Le radici dell’odio di Alan Parker. All’epoca si parlò e scrisse di prevedibile (!!) opera d’impegno civile, supportata da grandi prove attoriali ma priva di quel quid che ne avrebbe fatto un lungometraggio da ricordare. Valutazione errata. Non sull’indubbio valore di un cast strenuamente impegnato in una gara di bravura all’ultimo ciak, quanto sul contenuto dell’opera stessa. Perché Mississippi Burning, attraverso gli anni, è divenuto un film-simbolo di una situazione problematica che periodicamente si ripresenta in tutta la sua gravità in quasi qualunque area geografica degli Stati Uniti.
La storia prende le mosse dall’omicidio di tre giovani attivisti per i diritti civili, finiti con la loro auto nel posto sbagliato, mostrato nel tesissimo prologo. La sparizione dei tre nella contea di Jessup porta l’F.B.I. ad indagare in quel luogo del sud dove ogni cosa è immota. Siamo nel 1964 e il sogno di un’integrazione sociale tra bianchi e neri ha appena subito il durissimo colpo della morte del Presidente John Fitzgerald Kennedy, a seguito dell’attentato di Dallas. Vengono inviati sul posto due agenti investigativi, il giovane ed idealista Alan Ward (Willem Dafoe) e l’esperto Rupert Anderson (Gene Hackman).
Si tratta, senza tema di smentita, dell’opera più esplicitamente politica diretta in carriera dall’appena scomparso Alan Parker. Autore che ha spesso inserito evidenti sottotesti in opere solo apparentemente di esclusivo impatto emotivo e spettacolare, vedasi ad esempio Fuga di mezzanotte (Midnight Express), girato una decade prima. Mississippi Burning possiede allora il coraggio di prendere una posizione netta, di dividere in maniera chiara il bene e il male, la ragione e il torto. Da qui sono probabilmente scaturite insensate accuse di manicheismo nei confronti del film, al quale venne rimproverata anche una descrizione sin troppo passiva degli afroamericani, incapaci di difendersi senza l’aiuto dei bianchi “progressisti”. Al contrario, Mississippi Burning racconta con prodigioso realismo la totale sproporzione di forze in campo, favorendo l’empatia nei confronti della resistenza attiva afroamericana e rendendo universale e atemporale un discorso che continua purtroppo a rimanere di estrema attualità. Per ottenere tale scopo Parker mimetizza la sua regia nel sofisticato ambito del cosiddetto cinema-verità, intervallando addirittura la narrazione tradizionale con finti inserti giornalistici. Reportage e interviste che sottolineano ulteriormente l’arretratezza di certi pensieri, peraltro tuttora in voga anche negli italici territori.
Un film dalla confezione accuratissima – la fotografia di Peter Biziou vinse il premio Oscar – che contribuì a prolungare l’equivoco su Alan Parker “pubblicitario” di lusso ma non di sostanza. Mentre invece la radicalità di Mississippi Burning risiede tutta nell’aver affidato la propria riuscita artistica al fattore umano dei personaggi messi in scena. Sono le loro scelte morali a fornire le coordinate di un’opera perfettamente consapevole su quale direzione intraprendere. Anche per comprendere al meglio come, per combattere e prevalere in un autentico verminaio, sia inequivocabilmente necessario sporcarsi le mani. L’anima del film sta dunque tutta nel confronto/scontro tra due modi differenti di intendere una professione che si rispecchia nella vita, quella tra Ward e Anderson. E se Gene Hackman giganteggia da par suo e Willem Dafoe lo segue a poche incollature di distanza è il personaggio chiave della moglie del vicesceriffo Pelle a risultare determinante sia ai fini dell’indagine narrativa che a far breccia nel cuore degli spettatori. Con una performance dir poco sublime Frances McDormand si consacrò attrice di razza, coadiuvata da un resto del cast tutto con le facce giuste, anche nella parte razzista del Klu Klux Klan (eccellente Michael Rooker).
Giusto allora che Alan Parker venga celebrato al pari di un regista che ha contribuito a scrivere pagine indimenticabili della Settima Arte. E che Mississippi Burning venga riconosciuto come film-manifesto di ghettizzazioni, fisiche e simboliche, del tutto inaccettabili. Ieri e oggi. Alla fine meglio tardi che mai.
Daniele De Angelis