Il risveglio della primavera
Per il suo lungometraggio d’esordio March to May (Od marca do mája), presentato in concorso al 43° Bergamo Film Meeting dopo l’anteprima in quel di Karlovy Vary nel 2024, dove si è aggiudicato la menzione speciale della giuria, Martin Pavol Repka ha scelto di attingere al suo vissuto, tirando fuori dalla soffitta alcuni ricordi del passato. Memorie legate a un periodo ben preciso che lo hanno riportato all’adolescenza e a un evento che ha riguardato la sua famiglia. Ed è a quelli che il regista slovacco ha deciso di attingere per dare forma e sostanza a un’opera in tutto e per tutto personale, che proprio a questa aurea intima e privata che l’avvolge e la caratterizza dal primo all’ultimo fotogramma utile deve il suo cuore pulsante.
Sulla base dei ricordi Repka ha riavvolto le lancette dell’orologio per riportare su carta prima e su quadro poi il ritratto corale di una famiglia di cinque persone che vive in un piccolo borgo della campagna slovacca. Mentre i genitori, alle soglie dei quaranta, invecchiano lentamente, i figli crescono ed è chiaro che presto seguiranno la propria strada. L’immutabile ritmo quotidiano viene sconvolto dall’inaspettata notizia della gravidanza della madre, e l’idea di un nuovo fratello o sorella finisce per influenzare tutti i membri della famiglia. Si tratta in effetti di una notizia tanto inaspettata quanto potenzialmente sconvolgente, eppure l’autore decide di prendere una direzione opposta e contraria rispetto a quella che con moltissima probabilità avrebbero preso tantissimi altri colleghi, trasformandola in una “bomba a orologeria” piazzata e fatta esplodere sulla timeline per frantumare il climax. Pensate infatti se su un plot così avesse messo le mani uno come Muccino. Nel suo caso una notizia simile innescherebbe subito una detonazione tra le mura domestiche, provocando una reazione a catena all’interno dei già fragili equilibri che sono solitamente insiti nelle famiglie più o meno allargate protagoniste delle pellicole del regista romano. Repka diversamente ne fa solo il punto di partenza per mostrare una deviazione imprevista nell’andamento del gruppo, mostrando come questo e i singoli provano ad adattarsi al futuro cambiamento. In questo macrocosmo topografico e habitat familiare, il regista inquadra i microcosmi emozionali delle individualità per restituire il ritratto di una comunità ristretta in transizione. Ma anche se l’autore allarga l’orizzonte all’intero nucleo, è inevitabile che l’attenzione dello spettatore si vada a focalizzare sul personaggio di Eliáš (intepreta sullo schermo da Damián Humaj), quindicenne e unico figlio maschio di casa, alle prese con le incertezze dell’adolescenza, la passione per lo skateboard e i tumulti sentimentali del primo amore, che di fatto data la natura autobiografica della vicenda è chiaramente l’ alter-ego del regista. Diventa lui, indipendente dalla volontà dell’autore, il baricentro su e intorno al quale ruota e si sviluppa una narrazione che si discosta dai consueti cliché dei drammi familiari per forma, stile e contenuto.
Nulla di eclatante dunque, motivo per cui chi si aspetta qualcosa di diverso resterà deluso. Chi come noi, invece, troverà in questa opzione spunti interessanti e un conseguente coinvolgimento emotivo rimarrà piacevolmente sorpreso. La notizia della gravidanza inaspettata in March to May, che funge da sottile filo conduttore della narrazione, non provoca terremoti, scontri, dilemmi o melodrammi tra i membri del nucleo di turno. L’autore preferisce al contrario la bassa intensità, evitando il pathos o qualsiasi altra espressività derivati da movimenti tellurici su ampia scala a favore di una temperatura emotiva costante, che resta tale nell’osservazione del quotidiano e di quanto accade con estrema naturalezza nei tre mesi citati nel titolo. All’arco di tempo linearmente cronologico coperto dalla timeline fa infatti riferimento il titolo della pellicola, che in una chiave puramente metaforica e poetica chiama in causa il risveglio primaverile dopo le stagioni fredde, quello che si trova a vivere la madre-moglie ormai in là con gli anni quando scopre di rimanere incinta. Ecco perché per rendere meglio l’idea sul tipo di approccio alla materia narrativa e drammaturgica di Repka, su come il tutto viene calato nel quotidiano, forse sarebbe più consono e calzante chiamare in causa quello di Ermanno Olmi e del suo L’albero degli zoccoli, al quale il regista slovacco, seguendo traiettorie ovviamente diverse, ha dichiarato di essersi ispirato, facendo del capolavoro del 1978 e del suo autore un riferimento costante nella costruzione della sua opera prima.
Il risultato è un debutto all’insegna del minimalismo e della misura, anche nelle performance attoriali, che punta e usa come bussola l’essenzialità tanto nel racconto quanto nel modo di raccontare, plasmandoli e indirizzandoli quindi verso uno sguardo pacato e contemplativo sull’interconnessione familiare, che ritrae le sottili dinamiche e la tranquilla resilienza dell’unità casalinga. Ciò viene catturato da una macchina da presa che adotta un funzionale e rigoroso stile semi-documentaristico privo di drammatizzazione e orpelli visivi, attraverso il quale il regista si concentra sui dettagli dell’osservazione e sule minuzie della vita quotidiana nel lento e naturale scorrere degli eventi.
Francesco Del Grosso









