Diventiamo ciò che respiriamo
Benvenuti recuperi estivi, se per essi s’intende il ripescaggio dall’oblio distributivo di lungometraggi quali L’infanzia di un capo (The Childhood of a Leader), opera prima datata 2015 di Brady Corbet, gratificata con il Leone del Futuro alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia nel medesimo anno. Riconoscimento del tutto meritato, per un film che colpisce innanzitutto per una messa in scena estremamente controllata e coerente da un punto di vista stilistico, oltre che per la potenza della parabola morale che racconta.
Siamo all’epilogo della Grande Guerra. Fotogrammi di repertorio ci mostrano gli effetti collaterali di un conflitto su larga scala. I vincitori pretendono l’umiliazione dei perdenti, come accade in tutte le contese particolarmente aspre. Torti e ragioni si confondono ad arte. Macerie fisiche e morali imperversano in ambienti asettici, dove la diplomazia sta trattando i fatidici compromessi. Brady Corbet, girando nel desueto formato del 35mm, ha l’abilità di condurre da subito il tutto in un’atmosfera straniante, partendo sì da elementi storici realmente accaduti – e da un testo letterario di Jean-Paul Sartre nonché dal romanzo “Il mago” di John Fowles – ma trasfigurandoli in una prospettiva sottilmente distopica che troverà il proprio culmine nel disturbante epilogo. Isola il piccolo protagonista Prescott, figlio di un potente consigliere (Liam Cunningham) dell’allora presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson, in una lussuosa villa alle porte di Parigi, in compagnia della madre (un’algida, altera Bérénice Bejo), raccontando quel pugno di anni decisivi alla sua formazione. Un’esistenza da prescelto, ribelle all’ordine precostituito che si rivelerà determinante nel suo sviluppo da adulto. Come sempre accade. Se Jean Renoir teorizzava della cosiddetta “permeabilità rispetto all’ambiente”, riferendosi a quello di sviluppo, L’infanzia di un capo rappresenta la dimostrazione implacabile di tale assunto. Cresciuto in un clima chiaramente impositivo, dal quale il bambino tenterà una fuga senza possibilità di riuscita, l’adulto assimilerà in toto tale modus operandi pedagogico, applicandolo però su larghissima scala.
Suddiviso in capitoli dai titoli oltremodo curiosi (“Il primo scatto d’ira”, ad esempio) quasi si trattasse di una vera e propria sinfonia in crescendo – e l’efficace colonna sonora classicheggiante firmata da Scott Walker ribadisce questa sensazione – l’opera dello statunitense Brady Corbet riesce a penetrare nei sensi spettatoriali attraverso un rischioso processo di “raffreddamento” empatico. Nessuno dei personaggi ispira simpatia: dal piccolo e inquietante Prescott, capriccioso nei confronti di chiunque, alla severità immotivata del padre, per finire con la freddezza affettiva di sua madre. Un teorema puramente intellettuale e anti-spettacolare che potrebbe generare nel pubblico pulsioni di rifiuto per ipotetico eccesso di intellettualismo; al contrario L’infanzia di un capo è in grado di far nascere spontanea ammirazione proprio utilizzando al meglio tutte le componenti della Settima Arte. A partire da una regia che dispensa soprassalti stilistici – vedere come è organizzata visivamente la sequenza della caduta sulle scale del piccolo Prescott, quella che sancirà il definitivo “stacco” verso l’età adulta – tra piani fissi che simbolizzano l’immobilismo di una predestinazione già scritta. Con un finale in cui un minaccioso Robert Pattinson – impegnato in un duplice ruolo ma decisivo nella breve apparizione di Prescott adulto – farà capire a tutti l’estrema pericolosità di un consenso popolare costruito sulla demagogia da parte di colui che conosce sin troppo bene certe dinamiche sull’esercizio del Potere. E Brady Corbet prosegue, stavolta in veste registica, nella visione di un cinema mai gratuitamente disturbante già prestata come interprete nello straordinario, purtroppo poco visto, Simon Killer (2012) di Antonio Campos.
Così L’infanzia di un capo si pone non distante, a livello concettuale, da un capolavoro assoluto come Il nastro bianco (2009) di Michael Haneke: tanti, troppi perché per una risposta che continua a far rabbrividire. Osservando la Storia reale e quella, solo falsamente, ipotetica.
Daniele De Angelis