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Light as Feathers

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VOTO: 4.5

Nella vecchia fattoria

In un piccolo villaggio della Polonia, vi è una modesta fattoria con cani, gatti e oche. Tante oche. Questa è la fattoria dove vive l’adolescente Eryk insieme alla madre, alla nonna e alla bisnonna. Il giovane non ha mai conosciuto suo padre e, sopraffatto da una madre dispotica e tiranna, ma, allo stesso tempo, incredibilmente fragile, vede nella vicina di casa tredicenne Klaudia il suo più grande amore. Peccato, però, che il ragazzo stesso non abbia capito realmente cosa voglia dire amare una persona.
Non soltanto una storia adolescenziale, ma anche – e soprattutto – una storia di violenza. Stiamo parlando di Light as Feathers, opera prima della giovane regista polacca Rosanne Pel, presentata alla tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, all’interno della Selezione Ufficiale.
Da sempre attenta ad analizzare la psiche umana e, in particolare, gli strani equilibri che, talvolta, vengono a instaurarsi tra vittima e carnefice, l’autrice, per questo suo primo lavoro, ha scelto un tema a dir poco impegnativo, dal momento che, nel mettere in scena una storia di violenza, si è voluto raccontare il tutto attraverso il punto di vista dello stesso carnefice. Operazione non facile, dunque. Soprattutto perché, in casi del genere, è molto facile perdere di vista gli stessi intenti iniziali. Se, dunque, inizialmente – e per ben tre quarti del lungometraggio – Rosanne Pel ci ha presentato Eryk come un ragazzo violento e privo di scrupoli, avvicinandosi al finale ha tentato, invano, di raffigurarcelo quasi come una vittima della sua stessa famiglia. Una vittima, che, però, necessiterebbe di un’urgente redenzione in chiusura del lungometraggio. Eppure, tale redenzione, sembra non arrivare mai. Ad un’attenta analisi, ciò sembrerebbe dovuto più che altro a soluzioni frettolose e raffazzonate proprio dal punto di vista dello script, in quanto i numerosi elementi tirati in ballo, così come le tante sfaccettature dei personaggi messi in scena, non vengono né approfonditi, né tantomeno sviluppati a dovere.
Il protagonista è un ragazzo arrabbiato. Molto arrabbiato. Eppure, nemmeno lui sa di essere tanto arrabbiato, preso com’è a voler difendere sua madre dagli altri uomini e, allo stesso tempo, soverchiato dalle forti personalità delle donne della sua famiglia. Non avendo conosciuto suo padre – che, a quanto possiamo intuire in seguito a un’affermazione di sua nonna, doveva essere un uomo altrettanto violento – il ragazzo non ha mai saputo nulla di lui. Tantomeno da sua madre. Sono, dunque, colpevoli a tal punto le donne della sua famiglia? O la violenza di Eryk dipende solo da un fattore genetico? Si direbbe entrambe le cose. Ed è qui che casca l’asino. Qui vengono a galla le incertezze della regista stessa, la quale, in difficoltà nel perseguire una strada precisa, sembra prendere le parti ora del ragazzo, ora delle sue vittime, senza dimenticare l’azzardatissima – e alquanto maldestra – metafora che vede il giovane trattare le donne (e, nello specifico, la giovane Klaudia) al pari delle sue stesse oche e che ci fa intuire quasi una sorta di odio latente, da parte della stessa regista, per il genere femminile.
Il risultato finale è un prodotto che vorrebbe dire molto, ma che, di fatto, non ha ben capito come dirlo, con ritmi altalenanti e teneri divertissement (vedi le poesie recitate, di volta in volta, dalla bisnonna del ragazzo) atti ad alleggerire il tutto, ma che poco, però, sembrano avere a che fare con l’intero lavoro.

Marina Pavido

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