Coming (out) to America
L’ambizione di Gabriele Muccino stavolta si ferma al racconto “universale” del rito di passaggio estivo che quasi tutti, almeno secondo lui, abbiamo vissuto. Con intensità pari alla velocità con cui ci si è sciolto tra le mani.
L’ultima fatica del nostro, L’estate addosso, è un’opera ponte tra le due dimensioni produttive mucciniane, sospesa tra Italia e Stati Uniti ma ambientata in prevalenza nella terra dei sogni e delle opportunità. La stessa in cui il regista ha trovato il proprio Eldorado. E si vede. Perché l’America di Muccino trasuda una concezione magicamente onirica da ogni fotogramma, soprattutto nella cornice idilliaca della splendida e autenticamente liberal San Francisco, dove due adolescenti italiani (ragazzo e ragazza compagni di liceo ma non proprio in confidenza) arrivano casualmente insieme per il fatidico viaggio post-maturità, ospiti di una benevola – poiché in fondo sofferente di solitudine (?) anche nella capitale delle libertà sessuali – coppia gay sui trent’anni.
Il fatto che il cinema di Muccino senior “retroceda” ancora una volta a racconto di formazione di per sé non sarebbe un male, anzi. Dopo i disastri americani con lungometraggi uno peggiore dell’altro (con l’atroce Quello che so sull’amore nadir ineguagliato e forse ineguagliabile in futuro) infarciti di banalità assortite e l’involontariamente comico nuovo sguardo sui quarantenni ex trentenni di Baciami ancora (2010), un ritorno alle atmosfere sentimentalmente innocenti di Come te nessuno mai (1999) avrebbe anche potuto rappresentare una ventata d’aria fresca in un modus operandi a fortissimo rischio di fossilizzazione in una maniera priva di qualsiasi senso ultimo. Purtroppo non è andata così. Un po’ perché i tempi sono cambiati, molto perché lo stesso sguardo di Muccino non è più vergine bensì smaliziato, tendente alla ricerca dell’effetto di superficie a scapito di una profondità di emozioni peraltro mai trovata compiutamente nella sua intera filmografia.
Sovrabbondante ma mai realmente turgido nella propria pienezza, L’estate addosso mette in sequenza discorsi a random sulla sessualità variabile a seconda dei momenti, vorrebbe interrogarsi sulle personalità intime dei personaggi messi in scena ma, seguendo uno schema narrativo talmente basico da ricordare quello di una soap opera in versione turistico-panoramica, riesce solo a volteggiare basso sulla superficie delle troppe tematiche affrontate. Ed il fatto di rivolgersi in prevalenza ad un pubblico di under diciotto o giù di lì può suonare, ambiguamente, sia come richiesta di alibi preventivo che come aggravante: L’estate addosso pare infatti richiedere l’utilizzo dello stereotipo per essere compreso da un pubblico giovanile ma al contempo ne fa un uso talmente esibito e scorretto da risultare diseducativo nella sua facilissima morale fatta di vacanze rivelatrici e immagini cartolinesche così patinate da far risultare impossibile la loro conservazione nella memoria. E non basta la solita chiosa moralistica – nell’occasione meno fastidiosa del solito, quasi un amaro rovesciamento in chiave maschile di quella, sciaguratamente ai confini della misoginia, femminile de L’ultimo bacio (2001) – a fornire spessore all’insieme di un film che deve i suoi rari momenti riusciti unicamente alla freschezza di interpreti poco conosciuti ma abbastanza in parte, ancorché penalizzati da ruoli intagliati tutt’altro che finemente dalla sceneggiatura opera dello stesso Muccino, Andrea Logiudice e Dale Nall. Il quale script, ovviamente, non si fa mancare autentici marchi di fabbrica registici come le litigate in pubblico con urla isteriche assortite nonché situazioni involontariamente parodistiche come la masturbazione ad oltranza alla quale ricorre il povero Marco, il diciottenne costretto a dividere il letto con la coetanea Maria, nel frattempo trasformatasi da suorina in pectore a strafiga mondiale. Nel nome di un cinema, quello di Muccino, dove nulla è impossibile tranne lo scontato. E gli orizzonti possono sembrare ampi – forse anche trendy – ma sono in realtà quanto di più limitato si possa immaginare.
Solamente su un aspetto, peraltro estremamente collaterale al nucleo narrativo de L’estate addosso, Gabriele Muccino ha perfettamente ragione. Se il messaggio di partenza era quello di invogliare i giovani ad andare all’estero, ben venga. Ma per costruirsi un futuro vero, non per trascorrere una vacanza pseudo rivelatrice sui significati reconditi di amicizia e amore degno di una lettura del Reader’s Digest oppure sulla necessità di trombare per comprendere appieno a quale orientamento sessuale si appartiene. La realtà sarebbe forse un filino più stratificata e pure problematica rispetto a tutto ciò. Anche perché la cosiddetta “sospensione di credulità” mal si confà ad un lungometraggio che aspirerebbe, in teoria, al grado di piccolo oggetto di culto generazionale.
Daniele De Angelis