Il rumore dei pensieri
Che Orecchie non fosse una commedia come tante, tante quante quelle fotocopia alla quale il cinema nostrano ci ha tristemente abituati negli ultimi decenni, anche ora che si grida alla rinascita del suddetto genere grazie a una manciata di pellicole di successo, è facilmente intuibile già pochi minuti dopo il play, che vede un uomo svegliarsi una mattina come tante con un fastidioso fischio alle orecchie. Un biglietto sul frigo recita: “È morto il tuo amico Luigi. P.S. Mi sono presa la macchina”. Ma il vero problema è che l’uomo non si ricorda proprio chi sia, questo Luigi. Inizia così una tragicomica giornata alla scoperta della follia del mondo, una di quelle giornate che ti cambiano per sempre.
Del resto, basta dare uno sguardo veloce alla sinossi dell’opera seconda di Alessandro Aronadio, per iniziare a farsi una prima idea su cosa ci attende nell’arco dei novanta minuti che ne circoscrivono la fruizione. Timeline, la sua, lungo la quale si dipana il racconto di un piccolo film dai toni grotteschi in superfice ma fortemente radicato nella realtà dei nostri giorni, al quale auguriamo un cammino fortunato nel circuito festivaliero, a cominciare dall’anteprima mondiale in quel del Lido nella sezione Biennale College della 73esima Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica, seguita da un’uscita nelle sale speriamo prossima e altrettanto fortunata, anche se non sarà facile.
Le difficoltà e gli ostacoli nella sua veicolazione potrebbero venire da tutta una serie di scelte fatte dal regista e sceneggiatore palermitano, che a conti fatti si tramuteranno, secondo il nostro modesto parere, nelle vere carte vincenti calate sullo schermo: dal disegnare il tutto con una fotografia in bianco e nero e con un rigore formale inusuale per questa tipologia di film (silenzi, tempi lunghi, quadri per lo più fissi), nemici acerrimi da molti anni a questa parte del grande e del piccolo schermo, a quella di mettere l’intero film sulle spalle di un attore alla prima esperienza cinematografica come Daniele Parisi, che però si rivelerà un’autentica scoperta, affiancandolo a un cast ben assortito dove figurano volti più o meno noti (Silvia D’Amico, Pamela Villoresi, Ivan Franek, Rocco Papaleo, Piera Degli Esposti, Milena Vukotic, Andrea Purgatori, Massimo Wertmüller, Niccolò Senni, Francesca Antonelli, Sonia Gessner e Paolo Giovannucci) che prestano corpo e voce all’universo umano che circonda il protagonista. E questi non sono gli unici rischi presi da Aronadio, perché di quello più elevato ancora non vi abbiamo parlato. Il regista confeziona una commedia semplice nell’architettura, ma tremendamente efficace nella resa, che riesce a prendere il meglio da ciascuna delle scene che vanno a comporre lo script. Uno script fresco e scorrevole, a tratti irresistibile (vedi le scene dell’ecografia, del prelievo al bancomat, dell’accettazione del pronto soccorso e del fast food), che non fa altro che catapultare lo spettatore di turno al seguito di un personaggio gettato senza se e senza ma in un’odissea on the road lunga 24 ore, tra le strade, i vicoli e gli interni della Capitale (con una variegata selezione di esterni da Via Merulana a Torpignattara, dalle ex caserme di Via Guido Reni al Metropoliz sulla Prenestina, dal Ponte Umberto I alla scalinata di San Pietro in Vincoli, ma anche via di Tor Marancia, il Villaggio Olimpico e Piazza delle Vaschette a Borgo Pio). In fin dei conti, nulla di particolarmente originale sul piano drammaturgico, tuttavia in Orecchie si assiste a un tipo di comicità fondata quasi interamente sui dialoghi e sull’interazione, praticamente mai sulle gag. Ed è un modo di costruire la commedia nel quale è sempre più raro imbattersi, poiché si preferisce puntare sull’accumulo di situazioni e purtroppo anche sullo humour volgare e spicciolo. Aronadio decide di andare controcorrente ed è per questo che abbiamo adorato il suo film, un film in tutto e per tutto inusuale per il panorama produttivo italiano, che oltre a regalare sorrisi è anche capace di cambiare pelle e registro, affrontando nel suo percorso narrativo anche tematiche più serie e impegnative (su tutte il senso di smarrimento e di scollamento dalla realtà che ci circonda), lanciando alla platea precisi spunti di riflessione (l’apertura graduale del mascherino sta a sottolineare anche questo aspetto, con una metaforica presa di coscienza da parte del protagonista).
Ma il merito più grande che va riconosciuto al regista è quello di aver saputo realizzare tutto questo con pochissimo, potendo contare quasi esclusivamente sui 150.000 Euro messi a disposizione ogni anno dal progetto nato nel ventre dalla kermesse veneziana nel 2012 (il Biennale College appunto), per dare un sostegno concreto ai giovani autori e alle produzioni low-budget come quella di Orecchie (tra quelle del passato ricordiamo il pluridecorato Short Skin di Duccio Chiarini). L’entità seppur ridotta ai minimi termini dei fondi a disposizione e le ristrettezze fisiologiche che ne sono conseguite non hanno, però, avuto alcuna ricaduta sul risultato. Al contrario, Aronadio è stato capace di tramutare un “handicap” iniziale in un’opportunità, ossia quella di essere completamente liberi tanto nella fase di scrittura quanto in quella di messa in quadro. Una libertà che si respira tutta dal primo all’ultimo fotogramma utile, che i canali di produzione canonici quasi certamente non gli avrebbero garantito. E la mente torna di default al cinema anarchico e “selvaggio” di Davide Manuli. Questo ha permesso all’autore, che precedentemente si era misurato con una pellicola diametralmente opposta per estetica e dna drammaturgico come Due vite per caso, di scrivere e filmare a briglie sciolte. Gran parte delle decisioni prese sin dal processo di scrittura, infatti, hanno dato i loro frutti e in nessun caso sono apparse forzate o influenzate dalle ristrettezze economiche. Semmai, il cineasta siciliano ha dato vita a una storia e a dei personaggi efficacissimi, creati su misura e in maniera funzionale alla tipologia di operazione.
Francesco Del Grosso