L’amore a quarant’anni
Ci sono tre fratelli: Antoine, Louis e Gérard. Antoine ha da circa dieci anni una relazione con Adar, uno psicologo che sembra conoscerlo meglio di chiunque altro. Louis è in procinto di sposare – spinto soprattutto dalla famiglia – Julie, la sua fidanzata storica, ma ha da tempo una relazione clandestina con Mathilde. Gérard, infine, si è da poco lasciato con la moglie Hélène – con la quale tenta di tornare disperatamente – e, dopo essere rimasto disoccupato, è tornato a lavorare nel negozio di abbigliamento dei suoi genitori. Dei tre è indubbiamente Antoine colui che sembra avere una situazione più stabile. E se, invece, il suo eccessivo preoccuparsi delle vite sentimentali dei fratelli fosse, in realtà, solo un tentativo di fuggire dai suoi stessi problemi? Tre fratelli, tre singole esistenze costellate da amori e delusioni, insieme a un infinito numero di responsabilità dalle quali fuggire. Sono loro i tre protagonisti di L’arte della fuga, ultimo lungometraggio – sia pur datato 2014 – del cineasta francese Brice Cauvin, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen McCauley.
Un romanzo americano per una trasposizione cinematografica francese, dunque. Ed è probabilmente anche per questo che un lavoro come L’arte della fuga sembra aver attinto a piene mani da diverse cinematografie e da diverse scuole, frutto di una positiva contaminazione di culture e modi di intendere la Settima Arte. Se pensiamo, infatti, al gran numero di commedie francesi che vengono prodotte ogni anno (e che, salvo rare eccezioni, spesso sembrano tutte confondersi e somigliarsi tra loro), in questo lavoro di Cauvin possiamo solo riconoscere la delicatezza e una certa eleganza di fondo (che, diciamolo, non guastano mai). Per il resto, per quanto riguarda sia la messa in scena, sia la caratterizzazione dei personaggi, sia persino il peso che i dialoghi hanno, possiamo dirci di avere di fronte un prodotto che (quasi) in tutto e per tutto sta a ricalcare il cinema statunitense e, in particolare il cinema del maestro Woody Allen. Al via, dunque, momenti frenetici, corse da una parte all’altra della città, personaggi stressati dal lavoro (o dalla mancanza di esso) e poi pranzi, cene e viaggi, viaggi e ancora viaggi. Una messa in scena dinamica che – forte di uno script robusto – sa ben trattare ogni singolo personaggio, caratterizzandolo (in poco più di un’ora e mezza di film) a 360°.
A proposito dei personaggi, bisogna fare delle considerazioni a parte. Presi come sono dai loro problemi, dalle loro nevrosi e dalle loro vite frenetiche, indubbiamente ci viene da pensare a figure tipicamente alleniane. Se a tutto ciò aggiungiamo anche un continuo parlare e, di conseguenza, un copioso utilizzo dei dialoghi (cosa assolutamente non facile da gestire, ma qui trattata in maniera egregia), ecco che le influenze del caro vecchio Woody si fanno sentire forti più che mai. Eppure, a ben guardare, un’altra importante figura che ha influenzato Brice Cauvin nella caratterizzazione dei suoi personaggi (e, in particolare, della frizzante Ariel, collega di Antoine) c’è eccome. Si tratta, come ben si può immaginare, di Pedro Almodovar (l’Almodovar del primo periodo, per intenderci), dal quale il nostro autore riprende principalmente tutto quell’essere costantemente sotto pressione, praticamente sempre sull’orlo di una crisi di nervi, come gran parte dei personaggi almodovariani sono stati a loro tempo.
Girato in parte a Parigi, in parte a Bruxelles, non possiamo non notare in L’arte della fuga un’estrema cura e un’attenzione nel rappresentare diversi quartieri delle città, con atmosfere calde e accoglienti e con le loro vite sì frenetiche, ma che, al contrario delle turbe interiori dei personaggi, sembrano comunicarci piacevoli sensazioni di pace. Merito, indubbiamente, delle lunghe passeggiate nei parchi o lungo i viali alberati, o anche della presenza – mai “ingombrante”, ma piuttosto marginale – di importanti monumenti. Le città e, di conseguenza, la vita all’interno di esse, vengono messe in scena da Cauvin con lo stesso amore con cui il già citato Woody Allen ci ha mostrato a suo tempo le sue amate New York e Parigi.
Un lavoro, questo di Cauvin, molto più complesso e raffinato di quanto possa inizialmente sembrare, dunque. Un lungometraggio che, forte di questo suo respiro internazionale, si rivela degna trasposizione di un romanzo che già a suo tempo ha saputo conquistare un gran numero di lettori.
Marina Pavido