L’Apocalisse dello sguardo
Più che giusto che per introdurre in sala La terza parte della notte (Trzecia część nocy, 1971), folgorante lungometraggio d’esordio di Andrzej Żuławski riproposto al Palazzo delle Esposizioni tra i Grandi Classici del Cinema Polacco, gli organizzatori di CiakPolska 2024 abbiano scelto un cineasta come Carlo Hintermann; un autore, cioè, che oltre a possedere una profonda e ramificata cultura cinefila ha spesso portato avanti, nel suo cinema, stilemi e approcci diegetici in grado di andare oltre le più comuni codificazioni narrative, ribaltate all’occorrenza in favore di uno sguardo più libero e penetrante.
Proprio alle parole spese in sala da Carlo Hintermann vogliamo fare ora appello, per suggerire una prima chiave di lettura del così disturbante, anomalo, ansiogeno lungometraggio, realizzato da Żuławski dopo essersi fatto le ossa su set assai prestigiosi, come quelli di Andrzej Wajda: “Credo sia estremamente importante quando le opere prime osino e in qualche modo mostrino la creazione di un linguaggio; e questo film secondo me è testimonianza di questo, una sorta di fucina all’interno della quale il linguaggio che diventerà poi distintivo di Żuławski, arrivando forse all’apice con Possession, si nutre in realtà di tantissimi elementi, che spaziano dal linguaggio teatrale all’espressionismo straordinario nella recitazione, fino a una narrazione che ha un setting, quello della colonia occupata dai nazisti, molto preciso, ma che diventa immediatamente un palcoscenico per creare dei rimandi narrativi che sovvertono sempre completamente i piani tra la vita e la morte.”
Ecco, partendo proprio dalle parole di Hintermann, ci sembra che esse ci aiutino a cogliere subito la specificità di una pellicola come La terza parte della notte: un film cioè che da un lato si inserisce, almeno superficialmente, nell’alveo di ciò che l’entourage comunista dell’epoca poteva avere interesse a raccontare, ovvero il dramma collettivo di un paese, la Polonia, sprofondato nella barbarie in seguito all’invasione germanica; ma che lo fa trascendendo volutamente ciò che per le autorità dell’epoca sarebbe stato opportuno mettere in scena, tanto da rompere praticamente da subito con qualsiasi convenzione narrativa allora in auge, sostituita con fierezza da uno stile visionario, lisergico, tale da trasformare una peraltro riconoscibile contestualizzazione storica con una più vasta, universale, kafkiana dissertazione sull’oppressione dell’individuo da parte di elementi irrazionali, autoritari, brutali.
Nella fattispecie assistiamo, con l’Apocalisse di Giovanni in sottofondo, alla crudele rappresaglia operata da un drappello di militari nazisti a cavallo, che nell’intenso e crudele prologo fanno scempio della famiglia del protagonista, Michal, rifugiatasi in una villa abbandonata e ivi massacrata. Madre. Moglie. Figlioletto di pochi anni. Già la conturbante colonna sonora per cui è accreditato Andrzej Korzyński introduce qui una nota paranoide, dissonante, fortemente ansiogena. Le successive azioni di Michal, intenzionato ad unirsi alla Resistenza per vendicarsi di tale orrore, abbandonano però quasi subito un qualsiasi sentiero realistico per diventare allucinazione, delirio, ossessione cinematografica allo stato puro; nonché ricerca disperata di una (im)possibile redenzione che passa anche attraverso il classico tema del Doppio, laddove l’immagine della defunta moglie Helena si riflette in Marta, giovane donna incinta ugualmente vittima degli eventi.
Come nel grandioso kolossal “abortito” On the Silver Globe, similmente a Possession e con dissertazioni visive maggiormente affini al body horror contemporaneo che ai gusti dell’epoca, Żuławski fa sì che la scheletrica linea narrativa de La terza parte della notte diventi sempre più un loop onirico, grottesco, all’interno del quale persino le ricerche sul tifo e sui pidocchi (la cui morbosità è tale, a livello di immagini, da risultare raccapricciante e disgustosa agli occhi di gran parte del pubblico, ieri come oggi) concorrono alla definizione di uno stile allucinatorio in cui il vitalismo disperato dei protagonisti si scontra necessariamente con un’atmosfera plumbea, mortifera, senza speranze.
Troppo ci sarebbe da dire sul setting spettrale del lungometraggio, anch’esso foriero di impagabili e indescrivibili intuizioni visive, ci preme invece sottolineare l’impegno profuso in scena dall’intero e validissimo cast, all’interno del quale abbiamo scorto anche (nel ruolo di Jan) un grande attore polacco, Jan Nowicki, carismatico interprete noto non soltanto per aver lavorato con Jerzy Skolimowski, Krzysztof Zanussi e Wojciech Has, ma anche per esser divenuto poi protagonista della meravigliosa trilogia di Márta Mészáros, cineasta magiara da noi parecchio amata proprio per i suoi tre “diari”: Diario per i miei figli (Napló gyermekeimnek, 1984), Diario per i miei amori (Napló szerelmeimnek, 1987) e Diario per mio padre e mia madre (Napló apámnak, anyámnak, 1990).
Stefano Coccia