Tornando a viaggiare sul 45° parallelo
Nella vita si va incontro spesso e volentieri a paragoni scomodi, ingombranti: una ventina d’anni fa il viaggio in Mongolia di Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti era stato gravido di conseguenze, sia sul piano della creazione artistica che su quello prettamente esistenziale. Aveva visto la luce un album dei C.S.I. di rara potenza e profondità, Tabula rasa elettrificata. E la loro esperienza mongola era stata anche al centro dell’ispiratissimo documentario, Sul 45° Parallelo (coordinate geografiche che accomunano peraltro la Pianura Padana e quelle sperdute steppe asiatiche), firmato da quel Davide Ferrario che a una certa scena musicale nostrana aveva già reso omaggio di sguincio nel cult assoluto Tutti giù per terra.
Ma quando si deraglia dai percorsi esistenziali abituali e ci si mette in viaggio sul serio, come ha lasciato intendere lo stesso Zamboni, possono accadere piccoli miracoli. Come quello di un padre e di una figlia che tornano insieme in quei luoghi remoti, arcaici, rincorrendo al contempo le circostanze che portarono al concepimento della ragazza, una genealogia famigliare formatasi in precedenza tra gli aspri paesaggi appeninici, ed i tanti elementi sciamanici e precetti quotidiani osservati presso quell’antichissima cultura nomade della steppa asiatica. La macchia mongolica ha preso forma così. Con l’apporto fondamentale, nella regia del nuovo documentario, di un cineasta la cui sensibilità per l’elemento paesaggistico e per le storie degli umani ci è nota dai tempi di Arctic Spleen, ovvero Piergiorgio Casotti.
Ad introdurre per sommi capi l’attesissimo evento cui abbiamo assistito domenica pomeriggio al Soundscreen di Ravenna edizione 2020 si rischia senz’altro di perdere qualcosa, per esempio quell’atmosfera impalpabile e misterica, creatasi già con l’apparire sul palco di Massimo Zamboni. Il musicista si è infatti prodotto in un recital poetico realmente da brividi. Nelle sue parole ha cominciato ad emergere, come da un fondale indistinto, l’esperienza così intima e riflessiva vissuta tornando in Mongolia con Caterina Russia Zamboni, la figlia giunta alla soglia dei diciotto anni col bruciante desiderio di quel particolare “rito di passaggio”. Accompagnati da un intenso commento musicale, frammenti di un mondo tanto distante (non solo geograficamente…) dal nostro prendono vita. E pare quasi, tramite certi passaggi, di immergersi ancora sia nella cultura di quel paese da cui Ossendowski ed altri furono completamente rapiti, sia nei bagliori del “barbaro umanesimo bolscevico, l’età del bruci il mondo caschi in terra” messo magnificamente in musica dai già menzionati C.S.I.
A seguire le immagini altrettanto evocative del documentario. Immagini capaci di veicolare, con un fascino quasi indeterminato, sfuggente, l’approccio personalissimo dei viaggiatori alla loro missione e – in controcampo – la popolazione asiatica con leproprie consuetudini sociali, i paesaggi sterminati all’orizzonte, la rude quotidianità del lavoro e quella filosofia di vita che può far percepire ancora oggi Gengis Khān quale parente in visita da un momento all’altro. Col vertiginoso accostamento, poi, tra le tradizioni della steppa e l’inurbamento selvaggio di Ulan Bator, capitale fagocitante l’anima stessa dei Mongoli, a creare un ulteriore capogiro. Poiché anche qui Piergiorgio Casotti, come era avvenuto per le spaesatissime nuove generazioni della Groenlandia, ha dimostrato di saper poggiare il suo sguardo su simili realtà con un misto di pudore, dignità ed empatia, entrando in punta di piedi nelle tende o tra i monaci buddisti in preghiera, ma guadagnandosi poi la fiducia necessaria a cristallizzare in qualche veritiero ritratto (riflesso condizionato della parallela attività di fotografo) tali presenze.
Stefano Coccia