Dentro la “performance”
Come è naturale che sia, c’è un cinema indipendente duro e puro ed un altro che tenta la mediazione con il mainstream, cercando di mantenere intatte determinate peculiarità. Nell’ambito del cinema statunitense, La famiglia Fang rientra senza dubbio nella seconda categoria e potrebbe definirsi un’intelligente opera di “compromesso” tra le due dimensioni produttive. Il film di Jason Bateman – l’attore è già alla sua seconda regia nel lungometraggio, dopo l’apprezzabile Bad Words (2013), inedito in Italia – si muove con coraggio sullo scivoloso terreno che separa realtà e finzione, intavolando un discorso sul senso ultimo della performance artistica capace di coinvolgere e stimolare alla riflessione anche lo spettatore attirato in sala magari dal cast più che dalla tematica affrontata.
Sembra in apparenza una commedia, La famiglia Fang; ed in parte lo è, anche se foriera di un insolito spessore per un’opera da presumere in teoria come scacciapensieri. Di famiglie disfunzionali il cinema ne ha portate sulla scena molte, ma raramente eccentrica come quella che dà il titolo al film. Attraverso i flashback dei due figli ormai cresciuti, Annie (motivata ed efficace, come ai vecchi tempi, Nicole Kidman, non a caso anche produttrice del film) e Baxter (lo stesso Jason Bateman, che si conferma attore di vaglia) viene rievocata la parabola artistica dei genitori, con il padre (il solito, gigantesco, Christopher Walken) nei panni di una versione estrema di Andy Warhol, protesa a svelare l’ipocrisia umana imbastendo scene di ordinaria follia a rompere la monotonia del quotidiano, tra l’altro coinvolgendo l’intera famiglia, Annie e Baxter, da piccoli, compresi.
Tratta dal romanzo omonimo di Kevin Wilson, la sceneggiatura di David Lindsay-Abaire – non nuovo a puntare lo sguardo su dinamiche famigliari particolari: con ottimi risultati in Rabbit Hole (2010), assai meno nell’anodino remake di Poltergeist (2015) – si concentra sull’essenza dei personaggi e su come il peso del passato riesca ad incidere sul presente. Ponendo una serie di pregnanti interrogativi su quali limiti si possano oltrepassare in nome della cosiddetta Arte, o almeno del concetto soggettivo che un individuo può crearsi in proposito. Senza forzare la mano a livello di plot, la diligente regia di Bateman segue l’accidentato percorso di emancipazione da parte di Annie e Baxter – chiamati dai genitori A. e B., tanto per dare l’idea di una considerazione simile a strumenti usati per uno scopo – allorquando si troveranno di fronte alla scomparsa dei genitori ormai anziani. Solo l’ennesima e definitiva performance da parte loro oppure vera e propria morte per mano criminale? Se alla fine la verità può rivelarsi assieme amara e costruttiva più di qualsiasi altra ipotesi, resta intatta la forza del discorso di partenza, che fa svoltare la commedia esistenziale prima verso il giallo e poi nei dintorni del tardo romanzo di formazione, con molte sorprese all’orizzonte e la necessità, da parte dei figli adulti, di liberarsi dell’ingombrante vincolo genitoriale per crescere definitivamente.
Fosse stato un film integralmente indie, con tutta probabilità La famiglia Fang avrebbe infranto anche il tabù – se tale può essere considerato nell’economia di un racconto in cui il sostegno reciproco è determinante, nelle sue varie combinazioni – dell’incesto, solo teneramente accennato nella sequenza rievocata di una rappresentazione infantile di Romeo e Giulietta. Così com’è il Bateman regista lascia invece il tema a giacere tra le righe, preferendo mettere al centro dell’attenzione, appunto, l’indefinibilità dei confini tra realtà e finzione, in modo da creare un mondo dove certamente non alberga la noia ma che esige anche un tributo pesante da pagare in termini di normale crescita pedagogica.
Ad un film come La famiglia Fang va riconosciuto, al di là di imperfezioni comunque veniali, il grande merito di aprire un dibattito su cosa sia davvero l’Arte – appagamento di sguardo, eterna e continua mistificazione o concetto unicamente e altamente soggettivo? – e su quali siano i mezzi leciti per arrivare al fatidico traguardo, sempre mettendo focalizzandosi sul cosiddetto “fattore umano”. Davvero non poca carne al fuoco, per un film solo sulla carta di poche altre pretese che non siano quelle di un buon intrattenimento, magari arricchito da sottotesti al di là della media di un prodotto simile.
Daniele De Angelis