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La ciudad de las fieras

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VOTO: 8

Once Upon a Time in Colombia

Il difficile transito verso l’età adulta. Le amicizie e i primi amori. Il senso della perdita, lancinante e crudele. Piccoli riti di passaggio da affrontare senza starci a pensare due volte. La rabbia profonda di adolescenze tremendamente complicate espressa poi attraverso il rap, col momento anch’esso rituale della “battle” a sancire la popolarità e i rapporti di forza tra i ragazzi del barrio. Tutto poi filtrato attraverso la difficoltà di preservare un po’ di dignità, di candore, lungo le stradine polverose, violente e caotiche di una Medellin dove la risposta  dei più consiste nel prendere subito la direzione opposta, fatta di ferocia, prepotenza e cinismo…

Ce n’è di carne al fuoco in La ciudad de las fieras, ed il rischio che i risvolti di un simile sostrato antropologico e narrativo potessero sfuggire di mano al regista era senz’altro forte, almeno in partenza. Per fortuna il colombiano Henry Rincón ha saputo conferire ritmo e armonia alla narrazione. Lo sguardo empatico da lui rivolto ai personaggi centrali della storia è altrettanto evidente. E le implicazioni sociali vanno così a incastonarsi nel plot con grande naturalezza, senza alcun intento declamatorio, arricchendo una partitura cinematografica fatta anche di immagini in grado di condensare impressionisticamente (vedi la tradizionale composizione floreale esibita con orgoglio dal protagonista, verso la fine, per celebrare le persone a lui più care) i significati di maggior impatto emotivo individuati lungo la via. A partire dalle amicizie vere e da un senso della famiglia, che appare costantemente minacciato dalla povertà estrema e da quell’aggressività presente un po’ ovunque. I combattimenti clandestini tra galli ne sono quasi la naturale estensione.

Brutale, urticante, livido, ma anche profondamente umano e poetico, La ciudad de las fieras; il che ne fa una delle opere di finzione più intense e apprezzabili, scoperte durante questa seconda edizione del Mescalito Biopic Fest. Non si resta certo insensibili di fronte a rapporti come quello tra il diciassettenne Tato e il nonno, incontrato al termine di una diaspora famigliare costellata di circostanze tragiche. E si lascia condividere pure lo sguardo preoccupato ma non scevro di tenerezza del regista sulla Colombia. Con in primo piano una Medellin dove si può finire ammazzati davvero per poco e dove i testi delle canzoni e una certa mitologia popolare non possono fare a meno di menzionare il triste fenomeno dei “falsos positivos”, uccisioni assurde e crudeli di cui sapevamo già qualcosa grazie a Falsos positivos di Simone Bruno e Dado Carillo, inquietante documentario che vinse il Premio della Critica al Genova Film Festival nel 2010.

Stefano Coccia

 

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