L’inatteso “fil rouge” tra un grande campione del passato e la questione arabo-israeliana
«L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare». Questa è senz’altro la frase più iconica generalmente associata al grande Gino Bartali, campione di ciclismo che nell’immaginario collettivo figura non soltanto quale autore di grandi imprese sportive e storico rivale del non meno talentuoso Fausto Coppi, ma anche come uomo dal carattere generoso, sanguigno e all’occorrenza polemico. La gente lo aveva ribattezzato, simpaticamente, “Ginettaccio”.
Non tutti sanno, però, che durante la Seconda Guerra Mondiale il poco addomesticabile Ginettaccio si adoperò anche, a rischio della vita e usando la propria popolarità come “copertura” per azioni comunque rischiose, in favore degli Ebrei perseguitati dai Nazisti, collaborando con ambienti ecclesiastici per nasconderli e riuscire eventualmente a farli partire per luoghi più sicuri. Tanti così si salvarono. Ma lo stesso Bartali nel Dopoguerra non ha fatto poi molto, per rendere pubblica questa sua encomiabile attività clandestina. «Il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca», è un altra frase che gli viene attribuita. I testimoni di questa condotta generosa e i ricercatori storici cominciarono però presto a parlare anche per lui, tant’è che oggigiorno a Yad Vashem, in Israele, c’è pure quello del campione di ciclismo italiano, tra i nomi di coloro cui è stata tributata l’onorificenza “Giusto tra le Nazioni”.
Questo lungo preambolo, solo per dire che ci ha sorpreso piacevolmente veder inserita la vicenda del corridore (doppiato per l’occasione da Tullio Solenghi), nel delizioso lungometraggio d’animazione uscito nelle sale, un po’ in sordina, questa estate: La bicicletta di Bartali, per la regia di Enrico Paolantonio. Frutto di una co-produzione tra Italia, Irlanda e India, tale film potrà forse apparire anomalo, desueto, anche per via di un’animazione dai movimenti non sempre fluidi e curati, come siamo soliti vedere negli omologhi blockbuster d’oltreoceano. Eppure, ci presenta una storia oltremodo degna di essere raccontata. E lo fa toccando le corde giuste, a partire dall’auspicata amicizia tra i popoli (tema adombrato in un racconto di formazione sognante e anche ruvido, per certi versi), senza contare poi qualche soluzione registica tutt’altro che trascurabile, come si vede ad esempio nel corso della gara ciclistica in Israele, allorché il paesaggio circostante si trasforma durante la corsa accompagnando in forma immaginifica i ricordi e le fantasie di uno dei giovani protagonisti.
Nato da un’idea di Israel Cesare Moscati, che assieme a Marco Beretta si è occupato della sceneggiatura venendo poi malauguratamente a mancare durante le riprese del film, La bicicletta di Bartali sviluppa in modo appassionato e appassionante il fil rouge tra l’aneddotica riguardante Bartali e un presente che suscita quasi malinconia, se si considera a quali livelli di abominio si è spinto quest’anno il rapporto tra Israele e le popolazioni confinanti: difatti fulcro della narrazione è David, un ragazzo ebreo che a Gerusalemme, con la sua squadra di ciclismo, è solito sfidare non senza boria, antipatia e diffidenza i giovani ciclisti del vicino villaggio arabo. Quando però uno di loro, Ibrahim, gli impartirà una straordinaria lezione sul senso più profondo dell’amicizia, il muro del pregiudizio comincerà piano piano a sgretolarsi. Almeno in lui, visto che le famiglie e i compagni di squadra di entrambi ragazzi, continuando a guardarsi in cagnesco dalle rispettive posizioni, non vedranno di buon occhio la cosa. Tranne i più saggi. E tale lo è, di sicuro, il nonno di David, che da bambino ha avuto la fortuna di conoscere Gino Bartali, aiutandolo pure in quelle temerarie sortite volte a fornire documenti falsi agli Ebrei in fuga, così da salvare loro la vita.
Molto toccante è perciò questo rocambolesco racconto di formazione, in cui la passione sportiva finisce per mescolarsi alla solidarietà, alla memoria storica e al desiderio di dire no a conflitti etnici vergognosi e assurdi come quello arabo-israeliano.
Stefano Coccia