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Killing Jesus

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VOTO: 7.5

Si dice il peccatore, ma non il peccato

Ci sono film che nascono dall’immaginazione dello sceneggiatore di turno e altri che, invece, per prendere forma e sostanza si alimentano di esperienze di vita vissuta, il più delle volte di coloro che poi si andranno a sedere dietro la macchina da presa per firmarne la regia, come nel caso di Laura Mora. Per la sua opera prima dal titolo Killing Jesus, presentata nel concorso lungometraggi del 28° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, dopo una serie di importanti selezioni e riconoscimenti raccolti nel circuito festivaliero internazionale (dai festival di Toronto e Cairo a quelli di Palm Spring, Chicago e San Sebastián), ha deciso di attingere a piene mani dal suo vissuto, in particolare da un evento drammatico che ha segnato in maniera indelebile lei e la sua famiglia.
Ora quell’esperienza così dolorosa e lacerante, che ha lasciato nel suo cuore e soprattutto nella sua mente ferite indelebili che difficilmente si cicatrizzeranno, è diventata il tessuto narrativo e drammaturgico del suo esordio sulla lunga distanza dopo la realizzazione di alcuni pluridecorati cortometraggi (tra cui Salomé) e altrettanti apprezzati prodotti per il piccolo schermo (Antes del fuego e la serie Escobar, El Patrón Del Mal). Killing Jesus, infatti, trae ispirazione dalla sua vita e dai tragici fatti successivi all’assassinio di suo padre avvenuto nel 2002. Viene da sé che il risultato, ovviamente romanzato e adattato alle esigenze di una scrittura cinematografica, rifletta sullo schermo attraverso la storia e i personaggi che la animano tutto il dolore e la sofferenza che quei fatti hanno provocato. Forse – e lo speriamo vivamente – il fatto che il tutto si sia in parte riversato sulle pagine di uno script prima (scritto a quattro mani dalla stessa Mora e da Alonso Torres) e di una trasposizione audiovisiva poi, possa aver avuto per lei una valenza terapeutica, utile a esorcizzare e a liberarsi si quei “fantasmi” che per anni l’hanno tormentata bussando ripetutamente e insistentemente alla sua porta. Dunque, è praticamente impossibile non assistere agli eventi che si succedono sullo schermo e alle conseguenze che ne derivano senza pensare che non sono il frutto dell’immaginazione di qualcuno, bensì della realtà e della sua crudele e a volte inspiegabile ferocia. Proprio in funzione di questo, l’identikit della protagonista di Killing Jesus non può che riportare direttamente a quello della cineasta colombiana. Come lei anche Paula sarà la testimone oculare dell’omicidio dell’amato padre, professore di scienze politiche all’università di Medellin. Devastata dal dolore, la ragazza deve confrontarsi con l’inerzia delle autorità che archiviano il caso. Qualche mese dopo, Paula si imbatte accidentalmente in Jesus, il giovane assassino. Inizia una discesa negli inferi, nei quartieri popolari della città, in un mondo di criminalità e delinquenza a lei sconosciuto.
In Killing Jesus, il dramma umano si va a mescolare senza soluzione di continuità con il revenge movie sino a generare un’opera che, cruda e diretta, senza orpelli e auto-censure, riporta a galla l’odissea di una ragazza in cerca di vendetta per una giustizia negata, quella che proverà in tutti i modi a farsi da sola scontrandosi con l’inerzia di una polizia corrotta, con la malavita locale e in primis con il carnefice. I faccia a faccia tra lei e il responsabile dell’omicidio danno origine a momenti di forte impatto emotivo (dal primo incontro in discoteca alla resa dei conti sul tetto, passando per la potentissima scena in cui Jesus insegna a sparare a Paula) che contribuiscono – e non poco – a mantenere alta l’asticella della tensione, nonostante questa venga meno quando i due protagonisti non sono entrambi presenti in scena. Tutte le volte che li vediamo a confronto, a guadagnarne in primis è la scrittura a tavolino, che per volontà della cineasta si alimenta dell’improvvisazione dei dialoghi per aumentare in maniera esponenziale il livello di realismo e veridicità delle scene. La Mora prosegue diritta e con decisione in questa direzione, puntando su attori non professionisti e tale scelta a conti fatti le darà ragione. Sono loro e le rispettive interpretazioni a rappresentare la vera forza del film e non è un caso che la macchina da presa sia continuamente attaccata ai personaggi in maniera asfissiante, quanto basta per restituire sullo schermo il duello fisico e psicologico tra la vittima e il carnefice.

Francesco Del Grosso

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