Quattro chiacchiere con Luna
Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2018 – sezione Alice nella Città – grande successo alla trentottesima edizione del Fantafestival (dove è stato insignito del Premio Mario Bava al Miglior Lungometraggio), Go Home – A Casa loro, terza fatica per la giovane cineasta Luna Gualano, per la sua capacità di trattare importanti argomenti di attualità all’interno di un riuscito film di genere, si è rivelato uno dei prodotti più interessanti e innovativi del circuito indipendente nostrano. Per l’occasione, ecco un incontro ravvicinato con la regista, la quale ci racconta in esclusiva il suo film e il suo personale modo di fare cinema.
D: In molti – sia alla Festa del Cinema di Roma che al Fantafestival – abbiamo avuto modo di vedere e apprezzare il tuo ultimo lavoro: Go Home – A casa loro. Com’è nata l’idea che ha dato il via all’intero lungometraggio?
Luna Gualano: Mentre ero in macchina con Emiliano Rubbi, lo sceneggiatore, abbiamo sentito alla radio la notizia dell’omicidio a Fermo di Emmanuel Chidi Namdi. Emiliano Rubbi si gira verso di me e mi dice: “Questa rabbia cieca, senza motivo. Sembra quella di uno zombie. Dovrebbero farci un film di zombie”. Quella scintilla, quell’idea, è stata l’inizio di tutto.
D: Quali sono state le principali difficoltà produttive che hai dovuto affrontare?
L.G.: Girare con poco budget non è mai facile, specialmente quando ci sono da realizzare degli effetti speciali. Fortunatamente, tutte le difficoltá sono state superate grazie all’immenso “capitale umano” che ha aderito al progetto. Senza Baburka Factory, ad esempio, non avremmo mai avuto degli zombie cosí elaborati e curati.
D: Il bambino che interpreta Alì è molto comunicativo. È stato difficile dirigere un attore così giovane?
L.G.: Sono stata fortunata perché Pape Momar Diop è davvero un bambino speciale, con un grande talento. Credo che anche diversi attori adulti possano vantare meno professionalitá di lui.
D: Più in generale: quali sono gli ostacoli più comuni che un giovane cineasta del circuito underground deve fronteggiare, per far sì che le proprie opere vengano realizzate?
L.G.: Sicuramente il fattore economico primo tra tutti. In secondo luogo, la burocrazia che è creata pensando alle grandi produzioni, con tante persone e mezzi. Per un piccolo progetto è estremamente difficile “stare al passo”. Terzo e non ultimo fattore è la difficoltà di reperire non solo dei professionisti validi, ma anche delle belle persone che decidono di sposare il tuo progetto e “farlo loro”.
D: Parlando di te e della tua carriera, quando hai capito che il cinema era la tua strada?
L.G.: In generale la messa in scena, sia teatrale che cinematografica, sono da sempre state “la mia strada”. Ho capito di voler fare la regista, invece, dopo aver visto un brutto film e aver pensato che io sarei stata in grado di farlo meglio.
D: Hai particolari modelli di riferimento?
L.G.: No.
D: Con chi ti piacerebbe lavorare in futuro?
L.G.: Con belle persone. Non sono una Star addicted, quello che conta, per me, è che sul set vi sia armonia e che nessuno si senta “piú importante di qualcun altro”.
D: C’è un film che ha influito particolarmente sul tuo personale modo di vivere e intendere il cinema?
L.G.: In generale un po’ tutta la filmografia di Tarantino e il suo modo di vivere il set.
D: Che progetti hai per il futuro?
L.G.: Sto lavorando con Emiliano Rubbi alla stesura di un nuovo film, ma per adesso sarebbe prematuro parlarne.
D: Quali consigli daresti a chi vuole iniziare la propria carriera da regista?
L.G.: Considerare che, come tutte le cose, ci vuole tempo per imparare. Tempo e costanza. Perché non tutti gli artisti possono vantarsi di essere anche artigiani, ma tutti gli artigiani sono, in parte, artisti. E diventare artigiani non è affatto facile.
D: Per concludere in bellezza: puoi raccontarci un aneddoto particolarmente divertente accaduto sul set (di Go Home o anche dei tuoi precedenti lavori)?
L.G.: Il protagonista Antonio Bannó, per non far tornare da soli i ragazzi ai centri di accoglienza, la sera, a chiusura del set, faceva un lungo giro per tutta Roma per accompagnarli nei centri di accoglienza dove risiedevano. I ragazzi, per sdebitarsi, gli compravano sempre una bottiglia di birra. A fine film, il frigo di Antonio era letteralmente straripante di birre.
Marina Pavido