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In Search of Hy-Brasil

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VOTO: 8

Al largo dell’Irlanda, ”l’isola che non c’è”

Proprio a livello di documentari, questa sedicesima edizione dell’Irish Film Festa è andata regalando ogni giorno meravigliose scoperte, così da propiziare un approccio alla realtà che non può fare mai a meno della soggettività dell’autore, delle deviazioni più sorprendenti e impensabili dell’immaginario, in definitiva del Mito stesso quale stratigrafia profonda del Reale. In attesa di soffermarci su North Circular, documentario che più di tutti ha saputo colpire l’immaginazione nostra e del pubblico, notevolissimo è stato anche l’impatto di questo lavoro firmato da Martin Danneels, che di un “sostrato mitico” ugualmente si nutre: sin dal titolo, In Search of Hy-Brasil fa difatti riferimento alla leggendaria, antichissima isola che stando a una miriade di racconti popolari apparirebbe e scomparirebbe ogni tot anni al largo del Connemara. Ma il Mito di Hy-Brasil ha ispirato pure, assieme ad altri elementi della cultura insulare irlandese, l’allestimento del padiglione di tale nazione alla Biennale di Architettura di Venezia 2023. Ed è a questa esperienza che il film fa in primo luogo riferimento.

Il regista dell’affascinante, suggestivo lungometraggio, Martin Danneels, è nato a Bruges ma si è trasferito in Irlanda nel 1998, dopo aver iniziato la sua carriera proprio in Belgio con Canal +. Ma è nella verde isola che ha realizzato gran parte dei suoi documentari, prima lavorando per TV3, poi partecipando alla fondazione di quella Red Pepper Productions sotto la cui egida è stata ultimata questa sua ultima fatica.
Accennavamo all’interesse dell’autore per quella componente insulare, marittima, così presente nella cultura irlandese. Ecco, da In Search of Hy-Brasil esce fuori bene, una volta tanto, la natura di arcipelago del territorio irlandese, che oltre all’isola principale può vantare circa 500 tra isole e isolotti su cui la tradizione celtica e quelle successive hanno depositato, a volte, segni importanti. Memorie che si perdono in secoli passati. E a tale retaggio tradizionale, rivisitato ponendo in rilevo l’attualissima necessità di ritrovare un equilibrio tra elemento naturale e presenza umana, si sono rifatti quegli architetti irlandesi contattati per il progetto dalla Biennale, i quali per le loro installazioni hanno tratto ispirazione proprio dai caratteristici paesaggi di alcune isole: più in particolare Inis Meáin, la più centrale e forse meno turistica delle Isole Aran (quelle immortalate dal grande Robert J. Flaherty quasi agli albori del cinematografo, per intenderci), situata tra Inis Mór e Inis Oír; e poi le impervie, selvagge Skellig Islands, che furono rifugio di monaci oltre un millennio fa.
La doverosa citazione di Flaherty ci permette di specificare che il grande cinema periodicamente si ricorda di queste remote realtà insulari: lo ha fatto innanzitutto l’ottimo Martin McDonagh ne Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin), film del 2022 ambientato per l’appunto nell’immaginaria isola di Inisherin al tempo della Guerra Civile Irlandese, ma girato in realtà presso alcune delle isole più note tra cui la già menzionata Inis Mór.

Tornando all’approccio di Martin Danneels, egli è riuscito nel piccolo miracolo di assecondare un flusso quasi ipnotico di immagini, potenziale inno alla scoscesa bellezza di quei territori, definendo al contempo con grande chiarezza gli intenti e la filosofia del piccolo nucleo di architetti che, a Venezia, ha saputo coniugare brillantemente determinati retaggi tradizionali e le tante sfide proposte da un futuro che si vuole sempre più eco-sostenibile.
La materia domina lo schermo, grazie anche alla trasognata fotografia di Joe Edwards e alle musiche di Charlie Danneels, sin dai suoi elementi primordiali (posti sempre in relazione con un’antropizzazione delle isole di antica data): gli onnipresenti muretti in pietra, le imponenti onde oceaniche, i brulli pascoli degli ovini. Laddove l’Uomo si è dovuto adattare a una Natura aspra che non fa sconto alcuno. La regia dell’ispiratissimo Danneels fa il resto, esaltando tali elementi ma inserendoli in un contesto narrativo più ampio; fino a riprendere quello split screen già usato magnificamente dagli stessi architetti per la componente video della loro installazione, duplicato nella circostanza dal regista del film così da evidenziare, attraverso un elegante gioco di simmetrie, il potenziale cortocircuito dell’immaginario generatosi accostando i tratti sublimi e maestosi della costa irlandese a quelli per altri versi magnifici della Serenissima.

Stefano Coccia

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