Arturo tieni duro
Lo conosciamo soprattutto per le partecipazioni a trasmissioni televisive di successo come Le Iene o Il testimone, ma negli ultimi anni Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, è tornato al suo primo amore, ossia quello per la Settima Arte. Risalgono, infatti, alla fine degli anni Novanta le sue prime esperienze nel mondo del cinema come assistente alla regia di Franco Zeffirelli in Un tè nel deserto e di Marco Tullio Giordana ne I cento passi. Proprio quest’ultima e le origini palermitane devono averlo spinto, forse inconsciamente, a parlare di uno dei problemi e delle piaghe che da decenni affliggono la sua terra, ossia la Mafia, quando da tre anni a questa parte ha deciso di confrontarsi con il grande schermo. In questa direzione e su questa tematica nasceva il suo esordio dietro la macchina da presa dal titolo La Mafia uccide solo d’estate, con il quale il regista siciliano aveva raccolto consensi tra gli addetti ai lavori e non sin dall’anteprima al Torino Film Festival.
La pellicola del 2013 aveva fatto breccia nelle menti e nei cuori degli spettatori proprio grazie al suo modo nuovo di raccontare la malavita organizzata, dissacrando i boss e restituendo l’umanità dei grandi eroi dell’antimafia. Il risultato fu un sorriso ironico e mai banale sugli anni terribili degli omicidi eccellenti. Sensazioni ed emozioni, queste, che in gran parte sono venute meno nell’opera seconda, quel In guerra per amore che arriverà nelle sale nostrane il 27 ottobre a una manciata di settimane dalla prima apparizione pubblica come pre-apertura dell’11esima edizione della Festa del Cinema di Roma.
Il ritorno alla regia di Pif non ha nel proprio Dna il medesimo humour, né la carica dissacrante che tanto aveva colpito della precedente pellicola. Ciò determina, per quanto ci riguarda, un depotenziamento e un vistoso passo indietro da parte di un autore che aveva saputo strappare risate, schiaffeggiando senza timori l’immaginario comune legato al cosiddetto mafia-movie. Il tutto grazie a una commedia intelligente e sarcastica al punto giusto. A prendere il sopravvento è un tono favolistico che in maniera non brillantissima sembra volere ricalcare il modus operandi e l’approccio alla Benigni, quello con il quale il regista e attore toscano ha costruito l’architettura de La vita è bella. Lo scenario e l’argomento sono diversi, ma l’intenzione di aprire una breccia nel dramma storico attraverso le “armi” della commedia e della favola appunto, hanno in entrambi i casi la stessa genesi. Dal canto suo, Pif non è ancora registicamente e drammaturgicamente maturo e pronto per supportare e sostenere una tale impostazione, anche se il potenziale c’è, ma va coltivato e fatto emergere solo quando si può contare su un’esperienza maggiore alle spalle. Si, perché quel modo di fare commedia è estremamente complesso ed è facile farsi male. Quando il regista siculo smette di fare il Benigni della situazione, infatti, la situazione cambia e In guerra per amore nell’ultimo quarto acquista più forza e sostanza. In quel momento, e solo in quel momento, Pif riprende a colpire il bersaglio, ossia quando torna a parlare più apertamente di Mafia. In tal senso, l’opera seconda può essere considerata una sorta di prequel de La Mafia uccide solo d’estate. Nel film del 2013, il plot si concentrava sul crescere e amare nella Palermo della mafia. Un racconto lungo vent’anni attraverso gli occhi di un bambino, Arturo, che diventa grande in una città affascinante e terribile, ma dove c’è ancora spazio per la passione e il sorriso. Da lì prendeva il via una storia d’amore che racconta i tentativi del protagonista di conquistare il cuore della sua amata Flora, una compagna di banco di cui si è invaghito alle elementari e che vede come una principessa. Sullo sfondo di questa tenera e divertente storia, scorrono e si susseguono gli episodi di cronaca accaduti in Sicilia tra gli anni ‘70 e ‘90.
Qui, invece, riavvolgiamo le lancette dell’orologio. Siamo nella New York del 1943. Mentre il mondo è nel pieno della seconda guerra mondiale, Arturo vive la sua travagliata storia d’amore con Flora. I due si amano, ma lei è promessa sposa al figlio di un importante boss. Per convolare a nozze, il nostro protagonista deve ottenere il sì del padre della sua amata che vive in un paesino siciliano. Arturo, giovane e squattrinato, ha un solo modo per raggiungere l’isola: arruolarsi nell’esercito americano che si prepara per lo sbarco in Sicilia: l’evento che cambierà per sempre la storia della Sicilia, dell’Italia e della Mafia.
I riferimenti e i legami tra i due film sono chiari e cristallini. In primis i nomi dei due personaggi principali, vale a dire Arturo e Flora, senza dimenticare la storia d’amore che li unisce. Ma il legame più forte è un altro. Ne In guerra per amore, Pif ci parla ancora della malavita organizzata, ma riportandoci indietro nel tempo per raccontare la sua affermazione dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia nel 1943. Pur conservando e riproponendo una serie di elementi già utilizzati tre stagioni fa (presenti anche nei prodotti televisivi che portano la sua firma), a cominciare dal racconto in prima persona, il regista prende decisamente un’altra strada. Da una parte, la scelta di cambiare direzione dimostra la volontà di Pif di non replicare la stessa formula, con il rischio molto alto di ripetersi e di ripetere quanto già proposto. Ciò ci ha fatto enormemente piacere, perché a differenza di molti colleghi che si sono appoggiati sui successi dei bei tempi che furono pur di garantirsi una continuità, il regista palermitano ha provato invece a non allinearsi alla massa. Purtroppo, l’esito non ha dato le risposte che avremmo voluto vedere, eppure qualcosa ci sentiamo di salvarla e quel qualcosa consente all’opera di mantenersi a galla sulla linea della sufficienza. Ci riferiamo al modo con cui Pif delinea il percorso umano e narrativo dei suoi personaggi, restituendone le diverse sfumature. Non si tratta di figure tridimensionali, ma di uomini e donne che portano avanti le proprie idee e seguono il loro cuore sino alla fine, affrontando le difficoltà e le ostilità della vita.
Francesco Del Grosso