Mi presento, sono il maniaco omicida
Film di chiusura del Monsters – Fantastic Film Festival, In a Violent Nature arriva dal Canada e rappresenta un tentativo, a tratti riuscito e a tratti meno, di aggiornare la sintassi dello slaher movie contemporaneo. Del resto l’incipit stesso è quasi una dichiarazione di poetica. O volendo il biglietto da visita del serial killer di turno.
Inquadratura statica dell’interno di un capanno abbandonato che scopriremo essere una torretta antincendio in rovina, persa tra i boschi dell’Ontario. Fuori campo alcuni giovani, mai inquadrati durante il prologo ma avremo comunque modo di conoscerli più avanti, discutono animatamente. Uno di loro compie senza saperlo un azzardo, sgraffignando prima di andare via un bel medaglione stranamente appeso a una canna che sporge dal terreno. E se ci fosse sepolto qualcuno là sotto? Come se quella canna gli avesse reso possibile il respiro o fosse comunque servata da “cordone ombelicale” con l’esistenza, come se a distanza di chissà quanti anni fosse sufficiente il gesto sconsiderato di quei ragazzi per uscire dal “letargo”, appena costoro se ne vanno un tetro omone apparentemente in stato di decomposizione si fa strada attraverso quel sottile strato di terriccio e foglie morte, così da rivedere la luce. Il suo nome è Johnny, ma lo scopriremo solo strada facendo attraverso una sorta di “storytelling” locale, dato che intorno a episodi accaduti parecchi decenni prima circolano strane, sinistre leggende…
Ad ogni modo Johnny è un rustico clone di Michael Myers o di Jason Voorhees, dal corpo impiastricciato di sangue, piaghe e terriccio, che da lì a breve comincerà a uccidere meccanicamente parecchia gente, un po’ per atavica pulsione di morte, un po’ per cercare di riappropriarsi del medaglione incautamente trafugato. E assisteremo anche a una scena nella quale il mostro, addentratosi in una struttura gestita dai ranger del luogo, s’impossessa di un altro vecchio cimelio; ossia il logoro abbigliamento, con tanto di accessori utilizzabili come armi, dei vigili del fuoco o guardie forestali presenti una volta sul posto. Qui praticamente il maniaco omicida timbra il cartellino e dichiara la sua identità, prima di mettersi al “lavoro”.
Cosa c’è quindi di particolare nel film del canadese Chris Nash, che lo può differenziare da altri “slasher”? Tanto, nel bene e nel male. Innanzitutto uno stile ieratico, fatto anche di campi lunghi a inquadratura fissa, in cui si ha tutto il tempo di osservare Johnny che, con una lentezza esasperante, si avvicina alle sue vittime. Proprio questo tocco straniante, in cui confluiscono la colonna sonora fatta principalmente di suoni della Natura, le interminabili inquadrature da dietro del maniaco che inesorabilmente avanza nella boscaglia (come a legittimare il suo punto di vista quale unico affidabile, ribaltando quindi in parte i ruoli prestabiliti), le pause del racconto così rare in tale filone, è un qualcosa che riesce almeno in parte a stravolgere le aspettative del pubblico, turbandolo in maniera diversa. Tuttavia si avverte al contempo tutto il rischio che tali stravolgimenti risultino freddi, un po’ sterili. Qualche trovata di regia, come il flashback o allucinazione del mostro che si forma sullo specchio in casa di una vittima, finisce per risultare abbastanza kitsch. E se alcune delle esecuzioni sono senz’altro spettacolari e indovinate, nel loro sadismo (e cinismo), vedi la ragazza massacrata scimmiottando la sua passione per lo yoga, altre rimangono inspiegabilmente goffe, “incompiute”. Su tutte quella di un ranger, naturale antagonista di Johnny, la cui uccisione viene preparata in modo tanto meticoloso, da far apparire poi l’atto del suo smembramento poco o nulla inquietante, quasi robotico. E lo stesso si può dire, del resto, del lungo e sproporzionato epilogo, la cui verbosità disperde a tratti la tensione fin lì accumulata.
Stefano Coccia