Un dettaglio non da poco
La Storia insegna che un dettaglio può fare spesso la differenza, sia in positivo che in negativo. Nel caso de Il traduttore di Massimo Natale, il dettaglio che scioglie l’intricato plot – che ovviamente non vi riveleremo – si rivela deleterio ai fini del giudizio finale, provocando una vera e propria reazione a catena. Dunque, non si tratta di un dettaglio da poco, ma di uno snodo di vitale importanza per sciogliere i fili della matassa. La chiave consegnata allo spettatore per consentirgli di spalancare la porta della verità sul principale enigma intorno al quale ruota il plot, è quanto di più sbrigativo si potesse trovare. Ciò denota una certa approssimazione e superficialità in fase di scrittura, cartine tornasole di quel modus operandi che appartiene solamente a coloro che non hanno saputo donare al proprio thriller una chiave di volta più potente e soprattutto originale. In questo modo si getta letteralmente al vento lo script e di conseguenza la sua trasposizione. Ed è quanto accaduto all’opera seconda del regista de L’estate di Martino, qui alle prese con un giallo dalle tinte forti, nel quale è possibile imbattersi anche in echi noir, melodrammatici e persino polizieschi.
Ma facciamo un passo indietro. La pellicola ci porta al seguito di Andrei Bina, uno studente rumeno che grazie a una borsa di studio ha avuto la possibilità di frequentare un corso di specializzazione in lingue e letterature straniere in un’università italiana. Dato che i soldi della borsa sono pochi, di sera lavora in una pizzeria e di giorno, quando viene chiamato, in questura dove traduce gli interrogatori e le intercettazioni di suoi connazionali. Quel lavoro sporco in questura Andrei, tuttavia, non lo fa per racimolare qualche soldo in più, ma per tenere fede ad una promessa che ha fatto alla sua ragazza moldava Mihaela quando ha lasciato la Romania, e cioè che in qualche maniera le avrebbe procurato il permesso di soggiorno per far venire anche lei in Italia. Il lavoro in pizzeria e in questura distoglie inevitabilmente Andrei dallo studio, cosa che non sfugge alla sua tutor, la quale, animata dal sincero desiderio di valorizzare il suo talento (Andrei, oltre al romeno e all’italiano, parla perfettamente diverse lingue, tra cui il tedesco), lo mette in contatto con una sua amica antiquaria, Anna Ritter, che vuole far tradurre il diario del marito tedesco scomparso da poco in circostanze tragiche. Con questo delicato compito Andrei viene catapultato in un mondo che fino a quel momento non ha neppure osato sognare.
Con Il traduttore, presentato in concorso al Santa Barbara Film Festival e alla settima edizione del Bif&st nella sezione Nuove Proposte, Natale cambia totalmente genere rispetto alla pellicola d’esordio, ma non sortisce quel risultato che chi aveva apprezzato il precedente lavoro si sarebbe augurato di vedere. Qui, ci si trova a fare i conti con una base mistery dove si aprono in modalità random finestre su altri generi, persino sul dramma amoroso a sfondo erotico (con una serie di scene bollenti affidate a Claudia Gerini e Kamil Kula che scaldano le fredde atmosfere delle location nordiche), frutto di un’idea di contaminazione senza soluzione di continuità che innesca all’interno dell’architettura narrativa e drammaturgica tutta una serie di stratificazioni (la mente torna a thriller morbosi d’oltreoceano come Mai con uno sconosciuto, Chloe o Delitto perfetto). Queste donano al script un maggiore peso specifico, oltre a un ispessimento del racconto e delle one line dei singoli personaggi che lo animano. Insomma, a una costruzione complessa e consistente in termini di eventi, dinamiche tra i protagonisti, raccordi e intrecci, fa da contraltare uno svelamento delle carte troppo frettoloso e facile, che serve agli autori dello script per fare in modo che tutti i tasselli trovino la giusta collocazione. Il fattore X che stabilisce l’ordine è davvero poca cosa se si pensa alla mole sostanziosa di sotto-trame e incognite che vanno a comporre il puzzle narrativo. Per quanto ci riguarda, questa è una grande mancanze, un limite che abbassa in maniera sostanziale l’indice di gradimento. Un vero peccato vista la base di partenza, il potenziale a disposizione, ma anche la confezione dove il tutto è andato a collocarsi. La regia, lo stile utilizzato, il gusto nella composizione del quadro e anche la fotografia firmata da Ciprì, a volte algida e altre volte carica di neri, che aveva dato una spinta propulsiva alla fruizione.
Francesco Del Grosso