Non abbiamo bisogno di parole
In una recensione pubblicata un po’ di tempo fa dedicata a Night Dancing un collega straniero si lasciava andare a un commento che all’epoca ci colpì moltissimo e al contempo ci sembrò alquanto eccessivo: «Quando David Lynch incontra David Fincher». Per tre anni, ossia da quando il cortometraggio scritto e diretto da Barney Cokeliss fece la sua prima apparizione pubblica al Festival di Toronto, il desiderio di verificare se quanto affermato si avvicinasse oppure no alla verità è rimasto un chiodo fisso piantato nella nostra mente.
La visione nel corso della seconda edizione del Saturnia Film Festival, laddove la pellicola del cineasta britannico si è aggiudicato il premio del pubblico, ha finalmente saziato quella fame di sapere. Anche se il suddetto mix continua a risuonare un tantino esagerato, quanto abbiamo visto scorrere sul grande schermo della kermesse toscana ci ha letteralmente folgorato, come quei colpi di fulmine che arrivano a ciel sereno e lasciano un segno indelebile. La stessa sensazione che del resto si trova ad affrontare il protagonista del corto di nome Bob, un uomo che ogni notte vede una bella e giovane donna ballale fuori dalla sua finestra. È paralizzato da lei. Si domanda se è reale. Ma le cose diventano più complicate .…
A renderle tanto complicate sono le cosiddette conseguenze dell’amore, che in Night Dancing si materializzano in un dramma sentimentale sull’ossessione e l’illusione, dove sono i corpi e non le labbra a parlare. Facendo quasi a meno dei dialoghi, il regista si affida ai gesti, agli sguardi, alle performance silenziose di Jason Thorpe e Louise Tanoto, alle avvolgenti note di Anne Kulonen e soprattutto alla danza, in una successione di struggenti e intense coreografie che restituiscono allo spettatore di turno un concentrato di poesia che accarezza le corde del cuore. Ed è con questi lampi di lirismo che lo short attira a sé il fruitore, regalandogli una cangiante successione di emozioni dal primo all’ultimissimo fotogramma utile. Il tutto attraverso una scrittura che mescola sapientemente due piani che finiscono inevitabilmente per intersecarsi, ossia quello onirico con quello reale.
Probabilmente è questa abile sovrapposizione, seppur applicata seguendo traiettorie diverse rispetto a quelle che hanno da sempre caratterizzato il cinema di Lynch, il motivo che ha chiamato in causa il modus operandi del più noto collega statunitense. Una fusione che trova nella curata messa in scena e nell’altrettanto pregevole messa in quadro (un plauso va alla fotografia di Philippe Kress), che richiama alla mente per efficacia quella che solitamente siamo soliti trovare nei film fincheriani, la perfetta chiusura del cerchio.
Francesco Del Grosso