Una storia medievale tristemente farsesca
Uno stanco, piccolo drappello di soldati in armatura avanza in una spianata arsa dal sole. Scortano il marconte Berlocchio (Lino Musella) e la sua corpulenta nuova sposa, la marcontessa Bernarda (Viviana Cangiano), diretti a prendere possesso del feudo di Tripalle. Si tratta di una elargizione del padre di lei, il re di Montecacchione, quale sospetta dote nuziale. E’ evidente, fin da questa premessa, che ci troviamo in un medioevo amaramente farsesco, mentre vediamo la soldataglia incedere stanca e affamata, il frate Cappuccio (Alessandro Gassman) parlare un improbabile latino che si mescola ad un italiano approssimativo e il consigliere di corte Belcapo (Giorgio Tirabassi) provare a dare una parvenza di nobiltà alla squallida compagnia.
Al primo tentativo il castello non viene neanche trovato: i nostri incappano invece in quel di Castellazzo, maniero in cui abita una misteriosa “vecchia” la quale rifiuta oltretutto ospitalità e ristoro. Il marconte (titolo a metà tra marchese e conte e che, ovviamente, non ha alcun valore pratico) decide così un goffo assalto dando ordine ai suoi luogotenenti Ulfredo (Vincenzo Nemolato) e Manfredo (Giovanni Ludeno) di scalare le mura. I due impiastri, più impegnati ad amoreggiare di notte fra loro che a far valere le virtù militari, falliscono in modo clamoroso.
Dopo una vergognosa ritirata, il castello giusto viene finalmente individuato, ma è una brutta sorpresa: le mura cadono a pezzi, gli interni e il cortile sono usati dal contado locale per far pascolare il poco, macilento bestiame del luogo. Lo scaltro capopopolo Migone (Valerio Mastandrea) non ha nessuna reale intenzione di aiutare il nuovo signorotto, convinto che la popolazione possa benissimo far da sé. Con disappunto, Berlocchio scopre anche che nelle vicinanze non cresce nulla e che praticamente non esistono pascoli. La fregatura è servita.
Come sopravvivere in un ambiente tanto difficile, senza risorse e con il volgo apertamente ostile? Mano a mano che il tempo passa, la fame, quasi una protagonista aggiunta del racconto, prende il sopravvento su tutti: villani, soldati, nobili. La contea di Tripalle è una vera trappola sociale che pian piano comincia ad esigere un pesante dazio dai suoi sciocchi abitanti.
Basandosi su un libro uscito nel 1978 dalla brillante penna di Luigi Malerba, Francesco Lagi scrive e dirige Il Pataffio, un film che rientra in quella serie di commedie un po’ disincantate che, nel nostro cinema, hanno visto spesso sullo sfondo un medioevo straccione e disilluso, metafora di tanti problemi ancora attuali. Non c’è solo l’esempio più facile da ricordare, L’armata Brancaleone di Mario Monicelli (1966), ma il pasoliniano Il Decamerone (1971), il Boccaccio di Bruno Corbucci (1972), fino a giungere al Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno ancora di Monicelli (1984). E certamente se ne possono citare molti altri.
Il titolo è lo stesso del romanzo, una parola grossomodo inventata che sta a significare “guaio”, “pasticcio”. L’attenzione ai costumi e agli ambienti riesce ad immergerci in un’atmosfera storica plausibile e, soprattutto, la sceneggiatura riprende con successo la bellissima lingua parlata nel libro dai protagonisti: uno strano misto tra romanesco, latino e volgare, qui con qualche incursione nel dialetto ciociaro (le riprese sono state fatte in provincia di Frosinone e in Abruzzo mentre, originariamente, i fatti si svolgono nella valle del Tevere). Tra i pregi della pellicola c’è anche l’interpretazione generale degli attori su cui spiccano, a nostro parere, Alessandro Gassman (meraviglioso il suo ipocrita e viscido prelato) e l’ingenua e sognatrice Bernarda di Viviana Cangiano, attrice che speriamo di rivedere presto sullo schermo. Forse è Valerio Mastandrea a non essere totalmente a suo agio nei panni cenciosi di Migone, restituendo un archetipo di contadino ignorante, ma dal cervello fino, che è molto distante dal Bertoldo reso a suo tempo da Ugo Tognazzi.
Ma con l’andare dei minuti (anche troppi, vista la durata di due ore che purtroppo si sente), la narrazione perde mordente, i ritmi si dilatano eccessivamente, la vicenda comincia a sfilacciarsi e la conclusione appare debole. Francesco Lagi ha già spiegato di aver fatto notevoli modifiche alla storia (troppo corposo il testo su cui ci si basa), cambiando completamente il finale e il destino dei personaggi. Non sappiamo se è per questo che sembra mancare qualcosa arrivati ai titoli di coda, certo è che il feudo di Tripalle ci è parso meno interessante che all’inizio.
Massimo Brigandì