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Il Muto di Gallura

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VOTO: 6.5

Occhio per occhio

Intorno alla metà dell’Ottocento, la lunga faida tra le famiglie Vasa e Mamia ha causato, in Gallura, la morte di circa settanta persone. Nel corso di tale faida, la figura di Bastiano Tansu – detto anche il Muto di Gallura – è diventata leggendaria. Al punto da ispirare, tra gli altri, anche il regista Matteo Fresi che, dunque, ha voluto raccontare per immagini una propria versione dei fatti, realizzando, appunto, il suo Il Muto di Gallura, già presentato in concorso al Torino Film Festival 2021.

Tutto ha avuto inizio, dunque, ad Aggius, un remoto paesino rurale. Pietro Vasa sta per sposare Mariangela Mamia, figlia di Antonio, uno degli uomini più in vista del paese. Tutto sembra andare per il meglio, fino a quando, a causa di un’antica disputa, Pietro si rifiuta di chiedere scusa per un oltraggio ai danni di uno stretto parente di Antonio. In seguito a questo evento, il fidanzamento verrà sciolto e avrà inizio una serie di omicidi al fine di vendicare l’onore delle rispettive famiglie. Ben presto, in paese, diventerà celebre la figura di Bastiano, appunto, muto fin dalla nascita, fondamentalmente di animo gentile, ma solito uccidere con un unico colpo di pistola in fronte chiunque possa minacciare la propria famiglia.
L’onore, il desiderio di vendetta, una violenza cieca che non si ferma nemmeno davanti a un bambino innocente fanno da protagonisti assoluti, dunque, in questo lungometraggio di Fresi. Bastiano è un ragazzo sensibile, che ha sempre messo al primo posto la sua famiglia e a cui fin da bambino è stato inculcato un determinato modo di pensare. Non solo uno spietato assassino, il terrore della famiglia Mamia, ma anche un giovane desideroso di avere una vita normale, di essere libero, di innamorarsi. Bastiano, se vogliamo, è una vittima della società, di antiche tradizioni, di un sordo egoismo. A cosa porterà tutto ciò?
Ne Il Muto di Gallura, al contempo, i villaggi e i paesaggi naturali sono trattati alla stregua di veri e propri personaggi. Immense distese di verde, austere dimore, fitti boschi custodi di impensabili segreti fanno da perfetta scenografia alla storia messa in scena e vengono costantemente valorizzati dalla macchina da presa di Matteo Fresi grazie a riusciti totali e suggestive panoramiche. Immagini di forte impatto emotivo che, tuttavia, vengono di quando in quando “penalizzate” da piccole ingenuità registiche (vedi, ad esempio, gratuite inquadrature di bevande versate all’interno di recipienti filmate direttamente dal basso) e da una fotografia eccessivamente patinata che si rivela, complessivamente, poco in linea con la storia messa in scena.
Peccati veniali? Forse. Perché, di fatto, nel complesso tali “sviste” – insieme a un commento musicale a volte eccessivamente invadente – poco influiscono sulla resa finale del lungometraggio, il quale, a sua volta, ben si fonda su una scrittura robusta e su un personaggio indubbiamente affascinante. Una figura ancora oggi avvolta nel mistero, le cui sorti sono tutt’ora sconosciute.

Marina Pavido

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