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Se la strada potesse parlare

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VOTO: 6

Una strada, tante storie

Barry Jenkins, malgrado la giovane età e una carriera iniziata soltanto da pochi anni, ha già avuto modo di farsi notare a livello internazionale. Non si può non ricordare, a tal proposito, il recente Moonlight, presentato anch’esso a Roma nel 2016 e vincitore di ben tre Premi Oscar, tra cui Miglior Film. E così, soltanto due anni più tardi, ecco riapparire il giovane regista nuovamente nella Capitale, dove ha presentato, all’interno della selezione ufficiale alla tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, If Beale Street Could Talk (nella versione italiana Se la strada potesse parlare, trasposizione dell’omonimo romanzo di James Baldwin.
Da sempre attento, dunque, alla condizione dei neri negli Stati Uniti, Jenkins già in Moonlight aveva trattato tale tematica unendo ad essa anche il tema dell’omosessualità. Stesso discorso vale per il presente lungometraggio, dove, continuando a cavalcare l’ondata dell’anti-trumpismo – pur non menzionando la tematica riguardante i diversi orientamenti sessuali – collegandosi a fatti di cronaca realmente accaduti, il regista mette in scena la storia di Tish e Fonny, i quali, amici per la pelle sin da quando erano bambini, si innamorano l’uno dell’altra poco più che adolescenti. Tutto sembra andare per il meglio, fin quando Fonny non viene accusato di una violenza sessuale che non ha commesso. Sarà compito di Tish – incinta di pochi mesi – e della sua famiglia lottare affinché l’innocenza del giovane venga finalmente riconosciuta.
La storia di due singoli che è, in realtà, la storia di tutte quelle persone di colore ingiustamente perseguitate dalle autorità. Operazione interessante? Indubbiamente. Se, infatti, più e più volte sono stati realizzati prodotti del genere per il grande schermo, fino a prova contraria le cose cambiano a seconda del modo in cui la cosa stessa viene realizzata. E qui casca l’asino. Pur avendo evitato la pericolosa retorica, i numerosi scivoloni e gli espedienti gratuiti presenti in Moonlight, Jenkins, nonostante abbia dato vita a un prodotto potenzialmente gradevole e interessante, dopo una partenza tutto sommato buona, anche in questo caso non è riuscito a far sì che l’autoreferenzialità che aveva caratterizzato il suo precedente lavoro non intaccasse l’intero lungometraggio. Ciò, di conseguenza, ha comportato tempi ingiustificatamente dilatati, ritmi eccessivamente discontinui e scene pericolosamente stucchevoli, come quello riguardante la prima volta tra Tish e Fonny o, in particolare, i numerosi flashback che ci mostrano il passato dei due. Se a ciò aggiungiamo un commento musicale eccessivamente invasivo, ecco che il tutto viene ancor più enfatizzato. Senza pensare all’utilizzo di una voce narrante (quella di Tish) didascalica e superflua o a elementi di sceneggiatura lasciati inspiegabilmente in sospeso (vedi il personaggio della madre di Fonny), i quali contribuiscono a far sì che l’intero lavoro scada ancor di più di qualità. Peccato. Soprattutto perché, malgrado tutto ciò, di elementi di interesse ce ne sono eccome. Prime fra tutto, le interpretazioni dei due giovani protagonisti (Kiki Layne e Stephan James), senza dimenticare anche lo stesso romanzo da cui tutto ciò ha preso vita e, soprattutto, l’idea di utilizzare come collante tra le diverse storie di neri ingiustamente perseguitati la stessa Beale Street (nel quartiere di Harlem, a Manhattan), luogo di nascita – come spiega la didascalia iniziale – non solo dell’autore del romanzo, ma anche degli stessi protagonisti e, non per ultimo, di Louis Armstrong.

Marina Pavido

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