Il resto di niente, la memoria di tutto
Con una sostanziale diminuzione della durata, dai 140′ della versione presentata fuori concorso alla 72esima Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia ai 96′ della nuova, I ricordi del fiume tenta l’avventura nelle sale nostrane a partire dal 21 aprile con un’auto-distribuzione mirata a cura de La Sarraz Pictures. In tal senso, l’abbassamento del minutaggio ci sembra una scelta molto saggia; utile alla causa distributiva e a una più consona fruizione dell’opera al di là fuori del circuito festivaliero nazionale e internazionale. La precedente versione, montata in fretta e furia per consentire il passaggio sugli schermi della prestigiosa kermesse lidense avrebbe sicuramente scoraggiato gran parte degli esercenti e degli spettatori, al di là dei meriti espressi dal film. Ma potete stare tranquilli che il nuovo documentario scritto e diretto da Gianluca e Massimiliano De Serio, pur se sottoposto a questa ulteriore fase di post-produzione, non ha subito scossoni tali da depotenzializzarlo o violentarne il senso e i contenuti. Al contrario, lo ha rafforzato sensibilmente.
I tagli, infatti, non hanno spostato gli equilibri in negativo, piuttosto hanno agevolato l’accesso allo spettatore di turno e resa più scorrevole la sua visione. Anche se ben strutturato, il cut originario tendeva di tanto in tanto a sedersi, a tornare sui suoi passi, con digressioni e momenti di eccessiva stasi che la new version (proposta al Trieste Film Festival prima e al Visions du Réel poi) ha in gran parte spazzato via. Le migliorie sono evidenti, con una timeline più asciutta e incisiva. Quest’ultima raccoglie al suo interno tutto il talento, l’idea, lo stile e il modus operandi caratteristici del cinema dei fratelli torinesi. Un corpus visivo e contenutistico in tutto e per tutto riconoscibile e coerente.
Con I ricordi del fiume, i gemelli De Serio hanno documentato, passando attraverso il rigore narrativo e visivo che li contraddistingue, la fine di un qualcosa. Quel qualcosa era uno spazio fisico brulicante e vivo che ora non c’è più e del quale, come suggerisce il titolo, se ne ha soltanto memoria. In tal senso, i potentissimi piani sequenza di apertura e chiusura, che vedono un bambino camminare tra i derelitti prima e le macerie di ciò che ne resta dopo, sono particolarmente significativi. Con la loro ultima fatica dietro la macchina da presa dopo la parentesi nel lungometraggio di finzione Sette opere di misericordia, i pluri-premiati registi piemontesi continuano la loro personale esplorazione nel macro tema dell’integrazione e dell’identità. Protagonisti della loro filmografia sono nella stragrande maggioranza dei casi proprio delle identità sradicate, alle prese con una continua ridefinizione di sé, o identità collettive, inedite e interstiziali. Così, dopo aver raccontato nelle produzioni precedenti diverse tipologie di comunità che hanno provato – più o meno riuscendoci – a trovare un proprio spazio nel Bel Paese, questa volta lo sguardo dei De Serio si è andato a poggiare sul Platz, un tempo tra le più grandi baraccopoli d’Europa in cui vivevano oltre mille persone di diverse nazionalità, situata sugli argini del fiume Stura a Torino. Tutto questo sino a quando un progetto di smantellamento si è abbattuto su di esso. Il documentario ritrae gli ultimi mesi di esistenza di quel luogo e di conseguenza il percorso di sgombero che lo ha cancellato topograficamente, ma non dalla mente di chi lo ha popolato e vissuto.
I De Serio penetrano, si mescolano e diventano praticamente invisibili, in quella sorta di babele fatta di lamiere, baracche, chiese improvvisate e rifiuti accatastati. Quello che restituiscono sullo schermo è uno sguardo dall’interno che sa essere tanto partecipe quanto distaccato. Questa mutazione nell’approccio alla “materia” umana e disumana è uno dei valori aggiunti messi in campo. Il farlo è servito a loro per dare una voce e un volto agli invisibili, a chi quotidianamente deve fare i conti con l’odio e il pregiudizio altrui. Ma I ricordi del fiume, oltre ad essere un documento importante, è anche un “diario” di immagini e parole, dove sono andati a confluire gesti, persone e aneddoti, destinati a rimanere impressi nel tempo e nella mente. Perché le ruspe possono demolire, ma non annientare. Un diario scritto in punta di piedi, con il rispetto di chi sa come entrare in una habitat senza invaderlo e stravolgerlo, per poi uscirne senza sbattere la porta dopo averne fatto parte per un periodo. Il tutto fa della pellicola un’opera di grande forza e intensità, di quelle da non farsi sfuggire e da non dimenticare.
Francesco Del Grosso