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Hill House

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VOTO: 6.5

Qualunque cosa cammini là dentro lo fa insieme

Tante cose possono essere definite come “fantasmi”, le paure, le speranze, i rimpianti, i rimorsi, ma soprattutto i desideri. Fantasmi che infestano l’anima e rabbuiano tutta una vita. Possono essere talmente forti da arrivare ad impregnare il luogo dove viviamo fino a vivificarlo ed umanizzarlo, di un’umanità aliena. Sembra essere questo il punto di partenza del regista Mike Flanagan per costruire il suo Hill House (The Haunting of Hill House, 2018). La serie è basata sul romanzo “L’incubo di Hill House” (The Haunting of Hill House) del 1959 di Shirley Jackson, considerato uno dei più importanti titoli del genere ghost story e più volte paragonato a “Il giro di vite” di Henry James.
Epperò Flanagan, specialista del genere horror, non mette in scena un vero e proprio adattamento dell’opera letteraria quanto, piuttosto, un palinsesto: ovvero sostituisce al testo originale un nuovo testo conservandone intatta la base scrittoria. All’interno della cornice da storia di fantasmi Flanagan costruisce un dramma famigliare, una storia sulle difficoltà dei rapporti famigliari e su come essi, e le persone, possano essere minati da una tragedia.
Tuttavia la struttura non appare del tutto omogenea, con i due registri, dramma e orrore, che appaiono paralleli più che tangenti, fino almeno al finale di serie dove finalmente si fondono, lasciando comunque il ruolo maggiore al dramma famigliare e rafforzando l’idea che sia esso a costituire il vero cuore narrativo della serie. La perplessità maggiore, comunque, la solleva la strutturazione episodica della serie. I primi episodi si concentrano ognuno su di un singolo personaggio. Ai singoli ritratti psicologici si accompagna una versione del trauma del passato, il tutto in una struttura temporale che riporta agli eventi narrati nell’episodio 1. Nei fatti il vero e proprio punto di partenza appare essere l’episodio 5. Partire direttamente da quest’episodio avrebbe forse donato alla narrazione più forza e coesione. Così com’è la storia appare un poco annacquata e rischia di annoiare e perdere uno spettatore poco motivato e di mettere comunque alla prova uno spettatore più interessato. In quest’ottica anche il mantenimento del mistero circa il trauma originario fino agli ultimi episodi finisce per apparire forzato, rischiando in tal modo di fagocitare l’attenzione dello spettatore a discapito della storia. Insomma, una durata minore ed un approccio meno psicologico avrebbero giovato alla struttura generale della storia, che appare comunque elegante, raffinata e dotata di un suo fascino. I movimenti della macchina da presa assumono a volte un taglio che ci porta ad avere la sensazione di essere dentro al luogo dell’azione.
Gli attori appaiono ben scelti ed in parte e se l’interpretazione di alto livello di Timothy Hutton (Hugh Crain) non è una sorpresa è Carla Gugino (Olivia Crain), la quale già lavorò con Flanagan in un’altra produzione Netflix, Il gioco di Gerald (2017), che spicca su tutti con un’interpretazione intensa ed emozionante.

Luca Bovio

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