C’è del marcio in Australia
Toronto, Sidney, Londra e ora Roma. Il percorso festivaliero di Goldstone ha fatto tappa all’11esima edizione della kermesse capitolina, dove la pellicola scritta e diretta da Ivan Sen è stata presentata nella Selezione Ufficiale. La pellicola del cineasta australiano, qui alla quinta fatica dietro la macchina da presa, sembra avere un filo diretto genetico con la precedente, quel Mystery Road che ha nel Dna drammaturgico gran parte degli ingredienti che è possibile rintracciare in maniera piuttosto evidente anche in Goldstone.
Il menù, infatti, presenta non pochi elementi in comune, a cominciare dall’ambientazione. Nel film del 2013, il regista australiano catapulta il fruitore nelle lande desolate dell’Outback. Scelta, questa, che nella filmografia di Sen ha altri precedenti, risalenti al 2009, anno dello Sci-Fi Dreamland, la cui storia aveva come cornice le distese desertiche del Nevada, nei pressi della segretissima Area 51. Stavolta l’azione torna nella terra dei canguri e nel suo entroterra, per la precisione dentro e intorno ai confini della piccola città mineraria di Goldstone, teatro di terra, roccia e pochissimi nuclei abitativi dove va in scena l’indagine che farà da baricentro drammaturgico della vicenda narrata nel film. Qui, sulle tracce di una persona scomparsa, il detective Jay Swan viene arrestato per guida in stato di ebbrezza da un giovane poliziotto locale di nome Josh. Quando la stanza di motel di Jay viene fatta saltare in aria, diventa chiaro che nel distretto c’è qualcosa di molto più grande. Jay e Josh saranno così costretti a superare la loro sfiducia reciproca per scoprire una verità tutt’altro che gradevole. Quella che sembra un semplice indagine, svelerà invece una rete di crimine e corruzione nell’istituzione che controlla la città, la miniera locale e il consiglio aborigeno locale.
La lettura della sinossi e la visione della pellicola consente poi allo spettatore più attento e informato di scovare in Goldstone altri linee di congiunzione con quanto firmato da Sen nei decenni passati, per quanto riguarda i temi trattati, a cominciare da quello della difficile convivenza tra razza bianca e aborigena in Australia. Lo aveva affrontato prima nel dramma sentimentale Beneath Clouds, dove raccontava la storia della meticcia Lena, poi nel crime movie Toomelah, un doloroso romanzo di deformazione esistenziale di un adolescente indigeno. Un tema, quello razziale, che il regista deve avere particolarmente a cuore viste le sue origini aborigene.
L’altro ingrediente in comune è l’ibridazione, ossia la capacità dell’autore di mescolare senza soluzione di continuità – e con buoni risultati – i generi. Per Goldstone fa esattamente lo stesso tipo di cocktail di Mystery Road, mixando thriller, noir e western, con qualche venatura action nel finale ad alzare il tasso adrenalinico. Ne viene fuori un’opera che ne sfrutta gli elementi caratteristici senza che questi entrino mai in conflitto. Ciò funziona sia da un punto di vista stilistico che drammaturgico.
E allora cosa non va? Cosa non consente al film di navigare in acque più sicure? Quel qualcosa è la morale palesemente e ripetutamente sbattuta in faccia alla spettatore dal primo all’ultimo fotogramma utile, spalmata a dosi massicce tanto nei dialoghi quanto nelle dinamiche narrative e nell’evoluzione dei personaggi che le animano. In tal senso, il regista australiano ha bisogno di ribadire a più riprese il messaggio del quale il film si fa portatore sano, vale a dire quello della corruzione e della convivenza tra potere e criminalità. Per carità, tutto questo ci può stare, ma a volte dei precisi colpi di fioretto possono essere più efficaci e letali di fragorosi fendenti di sciabola. Se in Goldstone, Sen avesse scelto di combattere con il fioretto, probabilmente oggi parleremmo con toni più convinti.
Francesco Del Grosso