La famiglia (irlandese) passaguai
A volte ritornano. Tra i meriti dell’Irish Film Festa vi è anche questo: l’aver dato visibilità a cineasti irlandesi precedentemente ignoti al pubblico italiano, ma dotati di una poetica assai stimolante, continuando poi a metterne in risalto le opere più meritevoli, anche a distanza di qualche anno dalla loro scoperta come autori. È questo il caso di Niall Heery. Nella seconda edizione del festival la Casa del Cinema aveva ospitato Small Engine Repair, il suo lungometraggio d’esordio: prodotto abbastanza atipico, con le sue atmosfere country e il piglio da indie-movie statunitense, il film proiettava un’ombra insolita e venature agrodolci nel cuore rurale dell’isola. Lo sguardo del regista già allora appariva empatico nei confronti dei suoi conterranei, ma di sicuro non provinciale. Anche le sue precedenti esperienze come film-maker, del resto, erano state all’insegna di una certa apertura verso altri ambiti cinematografici, verso differenti linguaggi: dalla direzione di alcuni video musicali alla presenza sul set di King Arthur, il film di Antoine Fuqua girato proprio in Irlanda, nelle vesti di assistente alla regia.
Col più recente Gold, scritto assieme al fratello Brendan, il nostro Niall Heery pare aver conservato il suo affetto per le parabole di certi “outsider”, nonché quella vena umoristica dai connotati amarognoli, adattando però il tutto a una narrazione maggiormente ricca di sfumature e in grado di inglobare, non senza qualche squilibrio, un ulteriore diversificarsi dei toni e delle digressioni linguistiche. Ne sono un esempio gli irresistibili spot commerciali rivolti ad atleti in erba, di cui andremo tra poco a parlare. Il film è innanzitutto il ritratto alquanto anti-conformista di una famigliola disfunzionale, venutasi a creare per l’inatteso ritorno di quel “pater familias” rivelatosi inadeguato (e quindi spodestato), parecchio tempo addietro: dopo ben 12 anni il fragile Ray (ad interpretarlo un David Wilmot reduce da svariati set internazionali), con alle spalle lunghi periodi di depressione e un tentato suicidio, si ripresenta dalla compagna di un tempo (che lo aveva respinto, non avendolo ritenuto sufficientemente maturo per badare a una famiglia) e dalla figlioletta avuta con lei. Soprattutto riconquistare la fiducia della ragazzina, però, non appare impresa facile. Anche perché la madre ha preferito rompere col passato, sposandosi e andando a vivere con Frank, che per assurdo è l’ex insegnante di educazione fisica dello sciagurato Ray. La forzata convivenza tra i quattro conoscerà ben presto esiti ancora più sconcertanti…
Nell’eccentrico lungometraggio diretto da Niall Heery, il confronto tra due personalità maschili così distanti tra loro contribuisce a rendere il racconto più sapido. Da un lato abbiamo la tenera inadeguatezza di Ray. I suoi generosi tentativi di riconquistare sia la donna amata che una figlia dal temperamento scontroso sfociano, quantomeno all’inizio, in un’incredibile serie di “gaffe” e in altre decisioni impulsive, dove sulle buone intenzioni di fondo prevale fatalmente la goffaggine. Dall’altra parte della barricata c’è un rivale, apparentemente più integrato nella comunità, il cui innato narcisismo tende però a manifestarsi in forme decisamente inquietanti: ebbene sì, quei deliranti (e in ciò degni del più scalcinato action movie hongkongese) filmati pubblicitari cui si accennava prima, creati per sponsorizzare un nuovo metodo di allenamento, sono opera sua!
Sì, perché oltre a fare le veci del padre naturale, Frank è per la figlia di Ray il rispettatissimo allenatore della squadra di atletica. Se però il suo mostrarsi sempre vincente, il nascondere una vocazione autoritaria dietro il “politically correct” di facciata, il voler trasformare a qualsiasi costo la ragazzina in campionessa per compensare le proprie frustrazioni, sono tutti elementi tollerati e accettati all’interno della nuova famiglia, il ritorno di Ray finirà comunque per destabilizzare il discutibile assetto dei loro rapporti. Se il personaggio di David Wilmot genera quindi empatia, pur restando in una sorta di canale prestabilito, è lo sfacciato istrionismo del grande James Nesbitt (altra filmografia di tutto rispetto, la sua, con titoli che vanno da Bloody Sunday a Lo Hobbit) nei panni dell’ossessionato e ossessivo preparatore atletico a rappresentare, forse, la carta vincente di Gold.
Stefano Coccia