Quanto costa la felicità
La bravura di un regista – e di un artista in generale – sta anche nella capacità di saper rinnovare la propria arte e dunque di rinnovarsi, rischiando se necessario nel momento stesso in cui decide di percorrere strade impervie mai battute prima. Massimiliano Bruno ad esempio avrebbe potuto tranquillamente continuare a navigare in acque sicure, quelle della commedia very easy made in Italy che ha fatto la fortuna di molti connazionali e soprattutto dei produttori. Il cineasta, sceneggiatore e attore capitolino, con Gli ultimi saranno ultimi, adattamento per il grande schermo dell’omonima pièce teatrale del 2005 da lui stesso firmata e nelle sale a partire dal 12 novembre con le trecento copie messe a disposizione da 01 Distribution, ha scelto di mettersi in gioco cambiando registro. A conti fatti, tale scelta, per i motivi che andremo ad analizzare, non gli ha dato completamente ragione, ma il risultato è comunque ben al di sopra della soglia della sufficienza e meritevole di un plauso se pensiamo per un solo istante alla tanta paccottiglia nazional-popolare circolata nei scorsi mesi tra le mura “amiche”.
La pellicola, la quarta dietro la macchina da presa per Bruno, si va ad iscrivere di diritto in quella tipologia di opera che anglosassoni e statunitensi definirebbero “dramedy”, vale a dire quella terra di mezzo laddove le radici della commedia si intrecciano con quelle del dramma, quanto basta per dare forma e sostanza a storie chiamate a dispensare sorrisi e lacrime come in un tempo ormai lontano la tanto celebrata Commedia all’Italiana sapeva fare. Gli ultimi saranno ultimi racconta quella di Luciana Colacci (Paola Cortellesi) una donna semplice che sogna una vita dignitosa insieme a suo marito Stefano (Alessandro Gassman). E proprio al coronamento del loro sogno d’amore, quando la pancia di Luciana comincia a crescere, che il suo mondo inizia a perdere pezzi: si troverà senza lavoro e deciderà di reclamare giustizia e diritti di fronte alla persona sbagliata, proprio un ultimo come lei, Antonio Zanzotto (Fabrizio Bentivoglio).
Per Bruno si tratta di un’altra storia che ruota intorno a una figura femminile che prova a reagire alle avversità della vita, seppur con dinamiche, traiettorie e registri diversi rispetto a quelli che hanno caratterizzato Nessuno mi può giudicare. Per farlo, Bruno & Co. apportano le modifiche necessarie al testo di origine (racconto esteso ai nove mesi della gestazione di Luciana al posto di una sola notte, ossia quella del fattaccio; la Cortellesi non veste più i panni di tutti i personaggi come nello spettacolo teatrale, ma i ruoli vengono distribuiti a un gruppo di attori), così da consentire alla scrittura di transitare dalle tavole di un palcoscenico allo schermo di una sala. L’attenzione resta ancora al sociale e a certi temi a lui cari (crisi e perdita del lavoro, legami affettivi, ai quali si va ad aggiungere quello del rischio licenziamento a causa della gravidanza), quest’ultimi però non tutti approfonditi quanto avrebbero meritato. Ci si trova, infatti, a fare i conti con uno script che non scava a sufficienza dove invece avrebbe dovuto (vedi ad esempio il discorso delle antenne di Radio Vaticana e delle onde elettromagnetiche che mietono da anni vittime nella zona di Cesano alle porte di Roma), rimanendo colpevolmente ancorato in superficie. Quando al contrario riesce scendere più in profondità, vale a dire nel momento in cui il film inizia a parlare di scelte, dignità e reazione alla perdita del lavoro (rispondendo al seguente quesito: qual è il limite che una persona qualunque deve oltrepassare prima di compiere un gesto estremo?) in una maniera molto più incisiva rispetto al Soldini di Giorni e nuvole o al Benso di Fuorigioco, i risultati si vedono e a giovarne è soprattutto il processo di catarsi e coinvolgimento nei confronti del destino della protagonista, qui interpretata da una Cortellesi in stato di grazia alle prese con la sua migliore – a nostro avviso – performance cinematografica. La sua Luciana ci regala attimi intensi che schiaffeggiano e accarezzano il cuore (lo scontro dialettico con il marito in cucina e l’epilogo nella fabbrica), donando all’opera una spinta propulsiva di naturale emozionale.
Francesco Del Grosso