Hic sunt dracones
Anticamente sulle mappe geografiche le parti di territorio inesplorato erano lasciate ai bordi, alla fine del mondo conosciuto. Erano segnate da flutti marini, tempeste e mostri. Accanto recavano la scritta “Hic sunt dracones” (Qui ci sono i draghi). Sigmund Freud forse non sarà il primo esploratore in ordine temporale ad essersi avventurato in quelle zone, Breuer e Charcot sono suoi maestri riconosciuti, ma è il primo ad averle mappate organicamente ed aver dato loro un nome.
La serie Netflix per l’appunto intitolata Freud, creata e sceneggiata da Marvin Kren, Benjamin Hessler e Stefan Brunner, diretta dallo stesso Kren, regista austriaco fin qui noto soprattutto per il suo lavoro nel cinema horror e co-prodotta dall’emittente austriaca ORF si concentra proprio sul periodo giovanile di Freud, agli inizi delle sue esplorazioni. Epperò non lo fa seguendo il solco di un’opera divulgativa, che abbia intenti pedagogici, ma tuffandosi appieno nel novero della fiction. La biografia freudiana diventa quindi lo spunto di partenza dal quale si dipana un complesso psyco-thriller a sfondo storico-politico. È fattore non privo di interesse come si sia scelto di romanzare la nascita delle teorie freudiane. Partendo da ciò gli autori creano il loro personale melting-pot di generi, in questo richiamando la costituzione della Vienna imperiale tra Otto e Novecento.
Nello sviluppo della serie ci appare evidente come gli autori abbiano studiato attentamente i testi freudiani. Molti dei personaggi possono, in effetti, essere visti come esemplificazioni dei tipi psicologici teorizzati da Freud. Si può evincere anche dalla stessa struttura della serie; infatti ogni episodio ha per titolo un termine afferente alla scienza psichiatrica e si dedica ad elaborarlo mentre svolge la trama orizzontale. Torbida, espressionista, venata di quell’horror mitteleuropeo con cui Kren si è fatto le ossa, la serie si avventura nella decadenza sotto la patina dorata, nel buio degli angoli lontani dalla luce, nella cattiva coscienza di quell’epoca mostrataci come malata che è il tramonto dell’impero degli Asburgo. Nel farlo non risparmia neanche due dei protagonisti più eminenti dell’epoca ovvero Francesco Giuseppe l’imperatore eterno e il principe Rudolph l’erede dannato. Nel farlo mostra certo un forte germanesimo, che si palesa soprattutto nel concepire il male come un elemento estraneo e distruttore. Tuttavia vi è una distonia. Un qualcosa che si avverte anche in altre produzioni austriache. Una nota che si ode pure nel cinema slavo e balcanico. Forse è tutta suggestione, perché si sa non essere produzione tedesca e si vorrebbe marcare una differenza, eppure si capta, basta saper ascoltare. Questa distonia si concreta nel considerare il male non esclusivamente come un elemento esterno ma come elemento interno all’uomo e alla società. Il male fa parte di noi, dobbiamo accettarlo e guardarlo in faccia, solo così potremo avanzare e guarire. La rimozione è più un danno che una cura. Questo sembrano volerci dire Freud e gli autori della serie.
Luca Bovio