La danza della morte
La porta si apre. In attesa, davanti alla porta, c’è un soldato israeliano pronto a dare una notizia sconcertante. Micheal viene inquadrato centralmente, come se il pubblico stesso si trovi nella scomoda posizione di dover comunicargli quanto è accaduto. L’uomo in realtà sta osservando la morte, che gli sussurra all’orecchio che suo figlio è stato ucciso in guerra. Il conflitto che da molto tempo coinvolge il Medio Oriente non sembra trovare una possibile conciliazione tra le diverse parti. Le famiglie, di conseguenza, restano in attesa che tutto si risolva, o, nei casi più estremi, che i loro ragazzi tornino a casa sani e salvi. La presenza di quel soldato è il segno che tutto muterà, portando ancora più squilibrio nella famiglia, che dovrà ora convivere con il rimorso di non essere intervenuti prima per impedirgli di partire verso il fronte e lottare per una guerra non sua.
L’attesa di un militare in mezzo a uno scontro con le milizie avversarie pronte a colpirti, equivale a quella dello spettatore per Foxtrot, la seconda opera di Samuel Maoz. È sorprendente come un autore si sia affermato sulla scena internazionale per soli due lungometraggi conclusi. Eppure con Lebanon, film del 2009, gli è valso la vittoria (meritata) del Leone d’Oro, un premio più ambito per un cineasta in un concorso. Il motivo proviene dalla sua esperienza. Prima di essere un regista, Maoz è stato un soldato scelto per guidare carri armati israeliani. Questo ha certamente influenzato la stesura dell’opera, che rappresenta il suo lato autobiografico, con l’occhio del carrista che coincide con quello del cineasta. Per mezzo della macchina da presa Maoz sviluppa una storia angosciante e realistica, narrando l’immobilismo fisico e percettivo dei suoi personaggi, incapaci di prendere partner attiva a questo conflitto. Tutto ciò funziona grazie alla scelta di ambientare il film in un luogo stretto e claustrofobico, che garantisce una potenza visiva non indifferente. Questa struttura narrativa viene in parte presa anche in Foxtrot, presentato anch’esso in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2017, con l’unica differenza che il regista ha voluto osare di più, affermando ancor di più la sua riluttanza verso il conflitto arabo-israeliano utilizzando simbolismi e immagini ad effetto. Non è la battaglia armata a essere al centro della storia, ma emerge anche quella familiare contro un nemico ostico come il lutto. Se l’idea di suddividere il film in tre livelli potenzialmente collegati agli eventi poteva essere un buono spunto per rendere più ampia la sfera di influenza della guerra, e quindi non circoscritta solo verso coloro che ne prendono parte con l’arma, i problemi sorgono nella fase di realizzazione. Per le due ore di visione si contrappongono primi piani di due genitori apparentemente asettici e dove il dolore si afferma solo per mezzo di volti esterni, e campi medi del figlio in un misterioso e surreale posto di blocco, dove raramente quella strada viene assalita da automobili in direzione delle varie città limitrofe. Il regista opera un parallelo delle vare condizioni, riuscendo solo parzialmente a trasmettere la rassegnazione e l’impotenza del singolo, puntando invece sulla sua padronanza del mezzo e su scelte discutibili di alcune scene.
In Foxtrot si sente la percezione della rabbia del regista verso gli esponenti delle istituzioni, incapaci ancora oggi di risolvere un problema che si protrae fin troppo negli anni, un ira che sfocia anche nel sarcasmo attraverso l’assurda sequenza del ballo dei miliziani in mezzo al deserto. Tuttavia quando si entra nel nucleo familiare, l’assenza di empatia sfocia purtroppo nel vuoto più assoluto, rendendo difficile la condivisione diretta dei momenti di inquietudine dei soggetti del racconto.
Riccardo Lo Re