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Fare e vivere cinema: Bernardo Bertolucci nel corso del tempo

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La Milanesiana 2015 omaggia il cinema del Maestro

Poter ascoltare Bernardo Bertolucci dal vivo è senza dubbio un grande regalo a cui bisogna dir grazie alla Milanesiana e al maestro per aver accettato finalmente l’invito, come sottolinea l’ideatrice e direttrice della kermesse Elisabetta Sgarbi. Non è un caso che si sia scelta come location il Cinema Mexico, guidato con tenacia e perseveranza da Antonio Sancassani. Nell’ottica di apertura verso la città, optare per questo luogo ha significato far muovere i cittadini in una zona non molto centrale pur di ascoltare il maestro e vederne i lavori, oltre alla volontà di richiamare l’attenzione su una realtà viva della città meneghina, spesso casa del cinema indipendente e tra i pochi monoschermi (r)esistenti ormai.
La serata del 1 luglio 2015 rimarrà scolpita nella memoria di chi ha potuto prendervi parte per la possibilità di vedere suoi corti non molto conosciuti, ma estremamente significativi, per l’incontro tra il cineasta e due menti che, a loro modo e col proprio background, raccontano il cinema, Enrico Ghezzi e Alberto Pezzotta. A concludere il tutto la proiezione de La tragedia di un uomo ridicolo, una pellicola poco nota, ma che è valsa la Palma a Ugo Tognazzi per la Migliore interpretazione maschile al Festival di Cannes nel 1981.
«Disperato ma anche gioioso, delirante ma anche rigoroso, provocatorio ma anche candido, […] indefinito ma anche compiuto». Il critico del Corriere della Sera, Pezzotta, prende in prestito queste parole con cui il traghettatore culturale, Oreste Del Buono, aveva definito una delle pellicole più note di Bertolucci e le applica a tutto il mo(n)do di fare cinema del maestro. Immediatamente quei termini prendono corpo sul grande schermo mentre si assiste, in successione, alla visione di tre corti: Histoire d’eaux (2001), Il canale (1967) e Scarpette rosse (2013).
A parte lo stile fortemente caratterizzato e riconoscibile, per quanto possa apparire banale, ciò che colpisce è che film di pochi minuti riescono ad essere, appunto, così compiuti e, parallelamente, aperti e quasi sfuggevoli, senza contare i collegamenti che si vengono a creare tra un’opera e l’altra e sarà lo stesso regista a evidenziare la connessione tra il primo corto e L’ultimo imperatore (1987). Histoire d’eaux, con un’eleganza nella messa in quadro e una maestria nell’ellissi temporale, racconta di un gruppo di clandestini indiani che viene scaricato da un camion nella campagna laziale e dell’integrazione felice di uno di loro; ma verrebbe da dire che la nota per cui va in primis recuperato è la tematizzazione del tempo. Il secondo tratta del Canale di Suez, con una composizione del quadro che mostra l’invadenza delle petroliere. Il voice over accompagna le immagini raccontando lo scontro tra le popolazioni locali e l’arrivo del progresso, ma talvolta lascia il posto ai rumori dei “mostri” e ancora una volta il pensiero va all’attualità e alla questione spesso sollevata – certo con le dovute differenze – per le navi da crociera a Venezia. Il trittico termina con un brevissimo corto che segue le scarpette rosse in sella alla carrozzella che si scontra con i sampietrini, il motore della carrozzella che arranca nella strada dissestata tra uno slalom e l’altro nell’evitare i vetri delle bottiglie.
Dopo questa “introduzione”, la serata entra nel vivo con un dialogo a sei voci a cui raramente si assiste ai nostri giorni. Inevitabilmente molti dei cosiddetti grandi ci hanno lasciato e ascoltare il vigore, il sarcasmo e la lucidità con cui il regista di Novecento (1976) si racconta con uno sguardo anche a questo tempo è un’emozione difficilmente restituibile a parole. Gli interrogativi posti in campo da Pezzotta sono puntuali, volti a chiedere al maestro una sua visione dei cambiamenti. Si parte col digitale e Bernardo Bertolucci ci svela che la prima volta in cui ne ha sentito parlare è stato da Mick Jagger, il quale lo definì un sistema numerico senza riuscire a spiegarglielo fino in fondo. «Le mutazioni hanno accompagnato il cinema da quando è nato, se si pensa al passaggio dal muto al sonoro o dal b/n al colore, l’ultima è questa del digitale» – afferma – «Per il mio ultimo film, Io e Te (2012), ho fatto dei tentativi, ma guardando alcune inquadrature con il direttore della fotografia, abbiamo notato che la definizione era così spaventosamente assoluta, c’era solo la definizione, che ho preferito dire: aspettiamo ancora un po’ per il digitale. In quel momento, girare in digitale, mi sembrava di cancellare tutta la storia dell’impressionismo, però il desiderio di girare in digitale è ancora molto forte e credo che accadrà». Non poteva non controbattere Ghezzi, che da profondo cultore della Settima Arte e conoscitore del suo cinema, afferma che, a suo parere, non cederà al digitale. Il creatore di “Blob” e “Fuori orario” pone l’accento, in particolare, su L’ultimo imperatore facendo quasi una dichiarazione d’amore verso questo lungometraggio e non solo: «Non si era mai visto un film così personale e così ricco, con un bovarismo evidente e un’assunzione su di sé di tutto il potere del cinema». Ed è in questo dialogo che si cerca di rievocare  il grillo presente in quest’opera e, in un nesso con Histoire d’eaux, viene prepotentemente a galla la visione del tempo di Bertolucci, quanto ci faccia i conti lui e li faccia fare a noi, ma non vogliamo, svelarvi troppo qualora manchi all’appello tra i vostri film da vedere. L’ultima domanda di Pezzotta in qualche modo ci chiama in causa ancor più direttamente perché interroga Bernardo Bertolucci, in quanto ipercinefilo, su come pensa che sia cambiata la cinefilia negli ultimi dieci/vent’anni. Con molta onestà questi risponde di non frequentarla, ma, al contempo, registra un dato di fatto: «Io mi trascinavo nella nebbia su una macchinetta, a Bergamo Alta, rischiando di morire, per vedere un film. Ecco questa fatica che faceva parte del mio essere cinéphile, se non prendevi quel treno, non avresti più potuto recuperare quel film e sono molto felice che non ci sia più da pagare quel prezzo, che è riuscito a creare in noi il senso di eroismo. I cinefili di oggi possono recuperare tutto, anche La regola del gioco di Renoir, oggi si può vedere qualsiasi cosa e si può girare qualsiasi cosa proprio per via del digitale, non c’è la paura della spesa che comporta fare un film. Questo è bello e fa parte del cambiamento».
A coronare questa serata calda e magica, il conferimento del premio “Omaggio al maestro”, a «un autore che per i giovani continua a fare la rivoluzione, turba e perturba, freudianamente, comunica empatia e timore, oltrepassa i limiti di sesso e non soltanto» (dalla motivazione scritta dal giornalista Maurizio Porro). In onore del Cinema e, in particolare, di quello sgorgato dalla mente creativa di questo Premio Oscar, la chiusa è stata affidata a La tragedia di un uomo ridicolo (1981), un film che ha realizzato in un momento di solitudine, in cui c’è «molto molto fuoco perché parla di una storia molto molto nebbiosa. Si tratta di una pellicola sul miracolo del latte che diventa formaggio». È così che il regista ci introduce alla visione e per quanto vi possano apparire criptiche, queste parole riprendono delle battute proferite da Tognazzi, produttore di grana: «la differenza che c’è tra le fabbriche di questa regione e il mio caseificio è una sola: loro lavorano materiali morti, io materie vive. Il ciclo della lavorazione del latte mi fa venire in mente la catena della famiglia, il liquido che diventa solido, incredibile, dopo tanti anni sono affascinato dal miracolo del latte che diventa formaggio» e, ancora una volta, la macchina da presa fa visualizzare l’associazione appena raccontata. Il cinema come materia viva: questo ci ha fatto vivere quest’incontro.

Maria Lucia Tangorra

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