Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace
Tra i quattordici film selezionati nella sezione Visti da vicino della 35esima edizione del Bergamo Film Meeting figura anche un’opera battente bandiera tricolore che risponde al titolo di Fame. A firmarla il duo formato da Giacomo Abbruzzese e Angelo Milano, co-produzione franco-italiana presentata in anteprima mondiale nell’ambito del cartellone della kermesse bergamasca.
Inutile puntualizzare che il film della coppia pugliese nulla ha a che vedere con la celeberrima pellicola di Alan Parker, tantomeno con l’altrettanto celebre serie televisiva degli anni Ottanta diretta da Christopher Gore. Si parla comunque di arte nell’accezione più estesa del termine, ma l’ambientazione, le figure che la animano e soprattutto il contesto, sono decisamente diversi e non hanno davvero nulla in comune, a cominciare proprio dal titolo che qui non viene dalla lingua inglese, ma è letteralmente “Fame”. Di che cosa? Lo scopriremo presto.
Ci troviamo in quel di Grottaglie, piccolo centro in provincia di Taranto, dove la principale tradizione è la ceramica. Alla metà degli anni Duemila Angelo rientra da Bologna e porta con sé degli amici che fanno street art e grafica, con l’idea abbastanza evidente di reagire al torpore in cui il paese è da sempre adagiato. Gli amici sono Ericailcane, Blu, e un brasiliano all’epoca sconosciuto, Ethos. Comincia un’esperienza collettiva che, senza che la città se ne renda esattamente conto, diviene uno dei più importanti eventi di street art al mondo, il Fame Festival.
Quella firmata da Abbruzzese e Milano è un’opera che si muove su più binari narrativi che finiscono strada facendo per convogliare e riversarsi in un’unica direttrice: il diario di bordo o il backstage della manifestazione di turno, la sua rievocazione storica dalla genesi agli anni avvenire (rassegna dedicata all’arte di strada e alla grafica nata nei primi anni 2000 e chiusa, all’apice della notorietà, nel 2012) e naturalmente il film sul fare Arte, che in questo caso è quella della street art. Come avrete modo di constatare durante la visione di Fame, infatti, gli autori sono andati oltre, allargando a macchia d’olio l’orizzonte tematico dell’opera, arrivando a parlare anche di un tema altro come quello del concetto di bellezza. Un antico detto popolare recita: “Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace“. Mai come in questo caso le parole suonano sacrosante, perché non esiste un bello assoluto, dato che la bellezza spesso è relativa. Vale la stessa cosa anche per la street art. E a tal proposito non possono non tornare alla mente le dinamiche e le immagini del pluri-premiato Exit Through the Gift Shop, di (in co-regia con Shepard Faireye) e sull’anonimo street artist Banksy. In tal senso, Fame vuole essere una riflessione sul modo di fare e concepire l’Arte stessa, qualsiasi essa sia, laddove questa non è riuscita a piantare le radici, perché non riconosciuta. Nello specifico Grottaglie è la terra della ceramiche e oltre quella tradizione non si è mai andati, o meglio non si è voluti andare. Di conseguenza, qualsiasi iniziativa o proposta viene vista con pregiudizio e diffidenza, o ancora peggio come una minaccia. Ed è lo stesso protagonista a definire la sua terra d’origine un “deserto culturale”. Per questo motivo, quella dove tornerà a distanza di anni dopo la laurea il protagonista e co-regista è una terra da “educare”, ma anche da stravolgere, da mettere a soqquadro attraverso una vera e propria rivoluzione culturale. Ed è quello che Angelo proverà a fare, contro tutti e contro tutto, con il linguaggio universale dell’Arte, al fine di abbattere gli schemi mentali, ma soprattutto il malcostume, la censura e le nefandezze del Meridione (e non solo). Le “armi” utilizzate sono l’arte, la provocazione, i flash mob, la clandestinità e soprattutto tantissima ironia.
Per farlo, i due registi rimettono letteralmente insieme i pezzi, come solitamente si fa quando ci si trova davanti agli innumerevoli tasselli di un puzzle da comporre. Pezzo dopo pezzo, il film prende così forma. Tasselli diversi, alcuni dei quali grezzi e amatoriali, altri improvvisati e altri ancora frutto di un lavoro di montaggio (i timelaps e gli inserti di animazione, come quello riuscitissimo della creazione a tutto campo nel monastero abbandonato). Il contatto diretto, la vicinanza, la partecipazione e l’immersione in prima persona dei registi, la loro conoscenza viscerale ed epidermica della materia in questione, fanno di Fame un’opera intima e personale, ma che sa aprirsi al fruitore quanto basta per restituire uno spaccato di una coinvolgente esperienza collettiva.
Dunque, per tutta questa serie di motivi e per la sua apertura creativa, un’opera come Fame non può e non deve essere considerata alla pari di un semplice documentario sulle cosiddette arti contingenti (o minori), poiché a giudicare dai contenuti, dai messaggi del quale si fa portatore sano e delle tecniche miste utilizzate per trasferire il tutto sullo schermo, tale definizione sarebbe a conti fatti limitativa.
Francesco Del Grosso