Home Festival Altri festival Empire

Empire

113
0
VOTO: 8,5

Nel Purgatorio delle Indie occidentali danesi

Quella della cineasta danese Frederikke Aspöck è una sensibilità che può attraversare con facilità i secoli. Nel corso della retrospettiva che il 42° Bergamo Film Meeting le ha dedicato l’abbiamo vista particolarmente a suo agio con racconti di ambientazione contemporanea, siano essi lunghi come Rosita o magari cortometraggi come Får (Sheep). Ma nel sorprendente, recentissimo Empire (Viften, 2023), di ambientazione ottocentesca e coloniale, persino più forte ci è parsa la sua capacità di destabilizzare il quieto vivere borghese attraverso narrazioni cinematografiche tanto penetranti sul piano socio-psicologico, quanto curate nella messa in scena.

Piccola nota a margine, proprio grazie ad Empire (il cui background storico pare abbia, lo abbiamo scoperto tramite una breve ma intensa chiacchierata con la regista, qualche remoto legame con le sue stesse vicissitudini famigliari) abbiamo cominciato a prendere confidenza con una realtà di cui ignoravamo pressoché totalmente le coordinate, ovvero il passato coloniale danese. Per meglio dire, stando alle nostre conoscenze di base, la colonia per eccellenza della Danimarca era e resta la Groenlandia, mentre di Indie occidentali danesi non avevamo mai sentito parlare. Il motivo può essere banalmente questo: tali territori detti anche “Antille danesi” e comprendenti piccole isole caraibiche come Saint Thomas, Saint John e Saint Croix, pur essendo appartenute per secoli alla Corona danese, vennero venduti già nel 1917 (con l’eccezione dell’isolotto vulcanico di Water Island, ceduto invece nel 1944) agli Stati Uniti, diventando così le Isole Vergini Americane. Ciò ha favorito anche, col tempo, da parte della cultura danese ufficiale un processo di rimozione dell’esistenza di tale possesso d’oltremare… e con ciò anche degli abusi, delle macchie, delle piccole e grandi ipocrisie attribuibili a chi portò avanti questa esotica “avventura”, millantando a volte un maggior spirito umanitario rispetto ad altre potenze coloniali, ma smentendo talora tali presupposti coi fatti.

Con grande acume Frederikke Aspöck ha scelto un periodo ben preciso, per portare avanti il racconto, ossia il 1848, momento in cui per volontà della Corona stessa si era avviato anche lì un processo di abolizione della schiavitù invero piuttosto farraginoso e non privo di intoppi. Il film aspira peraltro a una dimensione corale, per quanto in primo piano vi siano i rapporti, a dir poco emblematici, tra alcuni personaggi; su tutti quello tra Petrine e Anna Heegaard, entrambe donne di colore e confidenti, volendo amiche, sebbene la prima sia ancora una schiava mentre la seconda non soltanto ha acquisito la libertà, ma è diventata a sua volta una ricca possidente e convive di fatto col governatore generale di stanza a Saint Croix, il bianco Peter von Scholten.
Situazioni paradossali, scelte di campo sempre più difficili da mantenere o comunque contraddittorie, ritratti in chiaroscuro della società coloniale danese, incursioni tra una servitù costantemente in bilico tra l’accettazione passiva della volontà altrui e venti di rivolta in costante crescita, tutto ciò viene a comporre un tessuto narrativo effervescente (rimarcato a livello stilistico anche da brevi, efficacissimi intermezzi disegnati) e saturo di implicazioni, che tenda esso verso un’esplicita deformazione grottesca o verso altre soluzioni sottilmente stranianti. L’immagine simbolo potrebbe essere in tal senso quella degli schiavi più piccoli, utilizzati per sventagliare gli ospiti alle cene, appollaiati sui lampadari delle ricche dimore!

La cura visiva si sposa ad ogni modo con un’attenzione altrettanto forte ai confronti verbali, ai dialoghi… che in certi frangenti rischiano persino di trasformarsi in monologhi, come nel caso della così illuminante dichiarazione patriottica formulata dall’ammiraglio Irminger (esempio lampante, il suo personaggio, di “banalità del Male” rapportata all’Ottocento), tutto teso costui a giustificare la propria predisposizione a somministrare crudeli punizioni corporali con la fedeltà a determinati, obsoleti valori. Questo è forse il momento in cui si svela con maggior chiarezza l’ipocrisia di fondo, presente sottotraccia in tutta l’architettura diegetica di un lungometraggio dallo svolgimento lineare, ma al contempo severo, stringente e implacabile.

Stefano Coccia

Articolo precedenteBangarang
Articolo successivoJe verrai toujours vos visages

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here

17 + 10 =