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Bangarang

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VOTO: 8,5

I bambini di Taranto Vecchia ci guardano

Man mano che ai più diventava evidente la gravità della situazione, sono state realizzate svariate opere cinematografiche inerenti a Taranto e alle sue problematiche sociali, ambientali, lavorative. Una serie di ferite ancora aperte il cui nucleo, senza girarci troppo intorno, coincide coi terribili danni alla salute degli abitanti (le stime sui decessi anomali di questi anni compiute dai periti della Procura di Taranto parlano di diverse migliaia di morti, una vera catastrofe umanitaria o per meglio dire una strage) causati dall’attività che la più grande acciaieria d’Europa ha portato avanti, senza che venissero prese precauzioni atte a prevenire l’insorgere di malattie dovute alla percentuale abnorme di diossina nell’aria o altre pesanti ricadute sull’ambiente, sin dall’inizio degli anni ’60.

L’essenza della città portuale pugliese non si può comunque ridurre a questo. Taranto Vecchia in particolare è tutto un ribollire di storie, tradizioni, stili di vita, ambienti pressoché unici e animati talvolta da un vitalismo disperato; quello che si può cogliere maggiormente nelle fasce più giovani della popolazione, ad esempio nei gruppi di ragazzini che sciamano tra moli, piazzette, vicoli angusti e stradine arroccate nell’antico borgo marinaro. Le contraddizioni quindi si sommano e si incastrano l’una sull’altra. In Bangarang un cineasta di rara sensibilità come Giulio Mastromauro, che di simili doti ha dato già prova nella produzione breve (il fortunatissimo Inverno, vincitore del David, come pure i precedenti cortometraggi), ha saputo fondere impulsi così contraddittori all’interno di un documentario che è anche vibrante poema visivo, fatalmente sospeso tra la tragicità della cornice ambientale e l’innegabile vitalità dei suoi giovanissimi protagonisti.

Il documentario di Giulio Mastromauro non lascia perciò indifferenti e difficilmente può passare inosservato. Ad accorgersene per primi sono stati addetti ai lavori e pubblico di Roma, considerando che all’ultima edizione di Alice nella Città è arrivato un meritatissimo Premio speciale della giuria. Ma era destino che il film facesse ritorno in Puglia dove è stato girato. Ed è proprio oggi, 17 marzo, il giorno in cui Bangarang viene presentato al Teatro Piccinni di Bari, quale Evento Speciale del BIF&ST 2024.
Anche al pubblico barese consigliamo non di guardare l’opera, ma di immergervisi e di lasciarsi guardare. Lasciarsi guardare ad esempio da quei ragazzini sfrontati che un po’ in italiano e un po’ in dialetto si rivolgono a noi dallo schermo e tirano fuori liberamente i propri pensieri, il rapporto che hanno con la famiglia, coi loro coetanei, con una città che si fa amare e si fa odiare con disarmante facilità. Giulio Mastromauro riprende (vedi i cortometraggi cui si accennava prima) il filo di un dialogo sincero e a tratti urticante con l’infanzia, coi momenti di formazione, dando vita a un cinema che fotografa in modo finanche giocoso il carattere, l’innocenza, l’anima stessa dei giovani protagonisti, ai quali la macchina da presa dedica ritratti singoli o di gruppo da cui è una profonda empatia ad emergere, non la volontà di edulcorare o smussare gli angoli.
E poi c’è Taranto, naturalmente, come l’abbiamo vista in qualche altro lungometraggio (talora pure di finzione: Il miracolo di Edoardo Winspeare), ma con quell’impronta così particolare che Mastromauro sa conferire a ogni singola inquadratura, come anche all’armonico e per certi versi contemplativo flusso temporale, cui le scelte di montaggio regalano sempre il ritmo giusto. Taranto così respira (nonostante la diossina), pulsa sullo schermo, nutrendosi di particolari rivelatori e di immagini fortemente evocative, quali possono essere quegli straordinari murales, ripresi in campo lungo e in dettaglio, nelle cui figure qualcuno ha saputo congelare l’essenza stessa del dramma in atto e la necessità di una risposta, sia a livello personale/famigliare che sociale in senso lato: simulacro, questo, di una comunità che conosce a memoria la propria vulnerabilità, le proprie ferite, ma non vi si rassegna.

Qualche critico o spettatore un po’ parruccone potrà semmai mugugnare di fronte alle didascalie che intervallano la narrazione, ponendo al centro dell’attenzione concetti universali come “Natura” o “Bambino” con le relative definizioni. Quasi ci si distraesse troppo dall’aspetto politico (che traspare comunque di continuo) della vicenda. Naturalmente a essere in errore è lo snob di turno. Cineasti come Franco Piavoli ci hanno insegnato da tempo il valore della semplicità, dei cicli naturali, di un pur lieve cambiamento atmosferico. La compresenza dell’elemento naturale e di quello antropico. Ed è anche a quel pregevole modello cinematografico, lo diciamo non soltanto per le ragguardevoli epifanie di cavalli o delfini, che il Mastromauro “naturalista” pare accostarsi. Raggiungendo in Bangarang un ammirevole equilibrio tra soggetti che possono interagire tra loro per affinità o per contrasto.

Stefano Coccia

 

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