Faccia a faccia
Che quello della giustizia riparativa o rigenerativa fosse un tema di strettissima attualità, molto dibattuto negli ultimi anni, lo dimostra il fatto che se ne sia occupata con una certa insistenza anche la Settima Arte. Basti pensare che a poca distanza l’uno dall’altro sono usciti due film provenienti da cinematografie diverse come quella italiana e francese che seguendo traiettorie narrative e drammaturgiche differenti affrontano il medesimo argomento. Si tratta di La seconda vita e Je verrai toujours vos visages (All your Faces) che, per ironia della sorte, pura coincidenza o per una vera e propria strategia da parte della direzione artistica, sono stati entrambi presentati nel programma della 15esima edizione del Bif&st, rispettivamente nel concorso ItaliaFilmFest e in quello di Panorama Internazionale. Tuttavia è solo del secondo che ci occuperemo, concentrando l’analisi critica sul film scritto e diretto da Jeanne Herry che abbiamo potuto vedere e apprezzare proprio nel corso della kermesse pugliese.
Per quei lettori che non conoscessero l’argomento in questione: la giustizia riparativa è quella forma di risoluzione del conflitto, complementare al processo, introdotta in Francia già nel 2014, regolata in Italia per la prima volta nel 2022 con la cosiddetta riforma Cartabia, che consiste nel tentativo di risanamento del legame tra vittime, colpevoli e comunità, dopo che quel legame è venuto a mancare con il compimento del reato. Non si cerca di ottenere la punizione dell’autore del reato, bensì di risanare quel legame con la società spezzato dal fatto criminoso. Si instaura così un contatto diretto tra offeso e offensore, il quale permette al primo di esprimere i propri sentimenti ed emozioni in relazione alla lesione subita, e al secondo di responsabilizzarsi. Il tutto attraverso sistemi sicuri e con l’aiuto di un terzo imparziale chiamato “mediatore”. Ed è quanto accade nell’opera terza della regista parigina nella quale Judith, Fanny, Michel, Nassim, Issa e Thomas, condannati per furto con violenza, incontrano Gregoire, Nawelle e Sabine, a loro volta vittime di effrazione, rapina e scippo. Mentre tali incontri con cadenza settimanale hanno luogo in uno spazio ricreativo e neutrale del carcere, al di fuori c’è anche chi come Chloé accetta di incontrare il fratello maggiore che anni prima aveva abusato di lei.
Con un palleggio insistito e alternato tra l’in e l’out, Je verrai toujours vos visages sviluppa le proprie linee narrative costruendo il racconto su questi due piani che non si intrecciano mai. Ma è quanto accade fuori dal penitenziario nel complesso percorso di avvicinamento che porterà al potentissimo faccia a faccia tra Chloé e il fratello a raggiungere il picco emotivo più alto. Perché è di emozioni più che di azioni che bisognerebbe parlare con la temperatura e il livello di disagio che toccano vette elevatissime in scene come quella sopraccitata. Una scena dove la tensione si taglia col coltello e che da sola è stata sufficiente a convincere l’Academy dei premi César ad attribuire il meritatissimo riconoscimento per la migliore attrice non protagonista ad un’Adèle Exarchopoulos in stato di grazia. L’unico tra l’altro portato a casa delle nove candidature complessive assegnate al film, nelle quali figuravano anche quelle ad altri membri del corposo e variegato cast a disposizione della Herry. In tal senso, la coralità è il motore portante di un’opera che fa del gruppo più che dei singoli il cuore pulsante. La grandissima qualità dell’ensemble (del quale fanno parte tra gli altri Jean-Pierre Darroussin, Gilles Lellouche, Leïla Bekhti, Élodie Bouchez e Denis Podalydès) messo insieme e orchestrato dall’autrice, a sua volta con esperienze davanti la macchina da presa, diventa di fatto il valore aggiunto con e attraverso il quale la pellicola riesce a bypassare, soprattuto nella cospicua parte ambientata in carcere, i limiti (che poi tali non sono se ti trovi al cospetto di opere straordinarie come ad esempio Carnage) di un evidente impianto teatrale.
Per un film dove le parole hanno un peso specifico e i fitti dialoghi rivestono un ruolo fondamentale, l’autrice aveva necessariamente bisogno di un cast capace di dare corpo e sostanza alle emozioni e ai contenuti creando un giusto equilibrio. E per quanto ci riguarda ci è riuscita pienamente. Del resto, la regista francese aveva già dimostrato con le prove precedenti (su tutte il pluridecorato Pupille – In mani sicure) di essere brava a prendere in mano le questioni sociali e trasformarle in opere di finzione, creando una miscela ideale di intelligenza ed emozione.
Francesco Del Grosso