La ragazzina che sussurrava ai cavalli
Davanti a un lungometraggio come Edhel, a maggior ragione una volta assodato il target anagrafico dell’operazione, la disamina critica non può che biforcarsi. Da una parte mettendo in rilievo le ingenuità, i momenti superflui, di un film che vorrebbe incanalarsi nel binario fantasy semplicemente armandosi della profondità del racconto, cosa che non sempre riesce al giovane regista esordiente Marco Renda. Da un altro punto di vista bisognerebbe però compiere il ragionamento inverso, mettendosi nei panni dell’osservatore infantile al quale è destinato Edhel. In tal caso le prospettive cambiano in maniera piuttosto radicale, mettendo in anche luce pregi di un certo spessore, quale ad esempio una buona capacità d’immedesimazione empatica nella fragile e tormentata esistenza della piccola protagonista.
Edhel, la bambina di dieci anni che fornisce il titolo al film, soffre di una malformazione congenita ai padiglioni auricolari, fatto che rende le sue orecchie appuntite e sporgenti simili a quelle di un elfo. Non basta coprirsi il capo con il cappuccio di una felpa per sfuggire al bullismo scolastico perpetrato ai suoi danni dai compagni cosiddetti normali; per la piccola la necessità di sopravvivere psicologicamente in un mondo ostile passerà per la creazione di una dimensione sospesa tra realtà e fantasia, al quale ingresso la indirizzerà il giovane ma già lungimirante bidello Silvano.
Funziona la descrizione del microcosmo in cui vive la piccola protagonista, che risulta particolarmente accurata. Orfana di padre, Edhel ama cavalcare comunicando con i suoi amici equini, mentre ha un rapporto più problematico con la madre. La sceneggiatura dello stesso Renda – scritta con Elena Margaret Starace – non risparmia realistici colpi bassi esistenziali alla sua piccola protagonista (peraltro ben interpretata dal volto assai espressivo di Gaia Forte), compreso il “tradimento” dell’unica amicizia costruita con molte difficoltà e diffidenze in ambito scolastico. Si comprende dunque abbastanza bene il motivo dei premi e degli apprezzamenti ottenuti da Edhel nei vari festival in cui è stato presentato, compresi il Los Angeles Film Awards e il Giffoni Experience: si tratta infatti di un film pedagogico nel senso migliore del termine, il quale, nonostante i difetti, riesce a disegnare un percorso di crescita felicemente compiuto a dispetto di un budget in tutta evidenza non particolarmente ricco. Una sorta di Wonder nostrano privo ovviamente della patina glamour e comunque permeato della medesima fiducia nei confronti della vita; tuttavia sensibilmente più sincero nel mostrare anche l’interezza dell’altro lato della medaglia, quello della sofferenza come tappa obbligata ai fini del raggiungimento del traguardo. Se, da un punto di vista formale, l’universo fantasy viene solo evocato attraverso l’ondeggiare di curiose entità luminose, l’invito di Edhel – inteso come opera cinematografica – è chiarissimo: della fantasia non è possibile fare a meno. Perché creare nuove esperienze, soprattutto al giorno d’oggi in una società schiacciata da un pressoché insostenibile macigno tecnologico che spinge verso una virtualità di rapporti inevitabilmente più frammentati e superficiali, è divenuta davvero impresa ardua. E forse l’unica via per ritrovare l’essenza di noi stessi, grandi e piccini, è realmente quella di ritrovare la nostra diversità e tendere l’orecchio, estremità a punta o meno, verso le tantissime istanze che la Natura e la Società hanno ancora da proporci.
Daniele De Angelis