Marion fa il porta a porta
Non è una testimone di Geova. Non fa raccolta differenziata. Non fa la differenza. Sandra è. Anzi ha persino il dubbio di “essere”. Tra uno svenimento e un’ingozzata bulimica di pillole. E’ un numero, come tutti gli “altri”, dei quali arriva a mala pena a sfiorare le vite. Sandra non varca neanche gli usci, forse destabilizza la cortina di pudore rovistando tra gli sguardi di un cortile. Ma non apre brecce. Tutti sono troppo impegnati a sostenere la routine snervante e inappellabile dei propri giorni. Sandra di giorni ne ha solo due, per convincerli tutti o almeno una maggioranza solida. Ma di solido non v’è che lo sguardo apprensivo e immacolato di un marito innamorato al di là delle isterie e delle incoerenze di una donna debole eppure stranamente tenace. Una donna comune, che decide di darsi, chiedere, scegliere. Porta a porta.
Due giorni, un notte. Sandra è una giovane madre con marito paziente e nessuna certezza, soprattutto da quando rischia il licenziamento. Dopo un periodo di depressione psicofisica sarebbe pronta a riprendere il suo posto in una fabbrica belga di pannelli solari, ma i suoi capi hanno stabilito che le sue braccia non occorrono più; tuttavia affidano la scelta ai colleghi di Sandra. Possono votare per ottenere un bonus di 1000 euro, se Sandra perde il suo lavoro. Uno stipendio in meno e una responsabilità tagliata. Chi sceglie, come scegliere, perché scegliere. Arriva il lunedì delle votazioni e Sandra non è l’unica a sentirsi già penzoloni sul patibolo. I fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne scrivono e dirigono un dramma aristotelico imperfetto, lineare quanto snervante (approdato in concorso al Festival di Cannes 2014). Un ovvio calcolo aziendale scrive destini, disegna alibi, impone sensi di colpa, reale e artificiali. C’è chi deve restaurare la casa, chi mantenere un’orda di figli, chi affrontare traslochi, chi le elementari inesorabili spese mensili, chi vuole lasciare il secondo/terzo lavoro clandestino sul retro di un mini-market per sostentare la famiglia, etc. Una lista della spesa e delle spese, appunto. Che si snoda tappa per tappa, nel lungo weekend di Sandra, che porta a porta appunto, riluttante e oberata da continue frustrazioni, prova a convincere i suoi colleghi.
Pugni in faccia, odi furenti, solidarietà spezzata, pasti svogliati e pianti scoppiati nei parcheggi di ristoranti sulla super strada, corse in autobus, corse in ospedale, sorrisi improvvisi. Tutta una questione di ricatto, baratto, coraggio. Di campanelli e di scalini. Questione di occhiaie e spalle incurvate, mutui, contratti in nero e mobbing. Ai tempi della crisi anche il fratelli Dardenne, dopo dieci anni di rimuginamenti, mettono la propria neorealistica firma al servizio di una storia di cronaca della precarietà ordinaria, che trascende la barbarie sociale e umana narrata con limpida violenza in molte delle opere precedenti.
In Due giorni, una notte, i Dardenne si spogliano quasi dell’azione narrativa e pedinanano Sandra (Marion Cotillard), l’interminabile cortocircuito di sguardi sgranati e rifiuti latenti, da un uscio all’altro. Rappresa e repressa in un dolore ostile, negli abiti trasandati di un’incomunicabilità ai limiti del’autolesionismo. I Dardenne si affidano rapidi ma non affilati al sottotesto, in uno script fatto di dialoghi scarni e di ripetizioni deliberate. Vorrebbero forse materializzare la simbolica inquietudine dei caratteri, come pure, strumentali, intimità e retroscena dei personaggi medesimi, attraverso minimi sussulti, mezze frasi, telefonate mutile, squilli vacanti. Anche Marion/Sandra non “entra” mai nelle “vite degli altri”, le lambisce, le distrae, raramente le scuote.
Ma stupore, la crisi (quella interiore), la denuncia sottile delle ipocrisie del potere e la subdola e/o sincera paura autoconservativa degli uomini, il pathos crescente della tragedia amletica, restano un rumore di fondo. I mitici Dardenne non trovano la chiave di volta, bensì annaspano nelle secche di un film che non crea empatie, ma cumula schemi vuoti. Sandra e i suoi colleghi, pur ottimamente intepretati, sono pedine di un gioco risaputo e benché sia chiaro tanto ai Dardenne quanto agli spettatori che in tale gioco non esistono nemici ma solo compagni di sventura, la messa in scena bidimensionale spegne il fuoco di questo racconto di equilibri sottili.
Spegne l’ardore di Sandra, difficilmente percepibile nelle sue spirali di isteria e rimpianto. Spegne le ragioni multiple dei suoi colleghi, francobolli di un melting pot poco contestualizzato. Spegne persino la dolcezza impagabile del marito-supporter Manu/Fabrizio Rongione.
Se i Dardenne cercavano l’equilibrio pungente e la freddezza silente del Jacques Audiard di Un sapore di ruggine e ossa, da loro prodotto. Se volevano un film catarsi in cui il sangue caldo delle opere precedenti sublimasse nella figura di Sandra, crocifissa dalla crisi moderna, il risultato è un lavoro che non funzionalizza la propria asfissia. Che non sa di lacrime, né di sudore o di lotta seppur sottopelle. Sa di ruggine e non merita o non vuole meritasi bonus. Che i Dardenne abbiano desiderato sperimentare un limbo nuovo?
Restare anche loro porta a porta?
Sarah Panatta