Tutto quel che avresti voluto fare ai venditori assillanti ma non hai mai osato fare…
Nella sezione Lost&Found della 43ma edizione del Fantafestival, l’intrigante Door (1988) di Banmei Takahashi ci mostra un inedito Giappone alle prese con il consumismo stalkerizzante fino al limite estremo.
Yasuko (Keiko Takahashi, moglie del regista), giovane ed attraente casalinga, vive in un grazioso appartamento con il marito Satoru (Shiro Shimomoto), spesso assente per lavoro, ed il figlio Takuto (Takuto Yonezu); quando un venditore porta a porta oltremodo invadente cerca di entrare in casa, la sua brusca reazione mette in moto un effetto domino a dir poco inaspettato; il rifiuto di accettare l’opuscolo informativo si somma alla mano chiusa nella porta, spingendo Yamakawa (Daijiro Tsutsumi), ferito fisicamente alla mano e psicologicamente nell’orgoglio, a piccole vendette. Quando poi, per caso, Yamakawa vede Yasuko, il desiderio di rivalsa si tramuta in quello di entrare a tutti i costi nella sua vita.
Door, la porta: il confine tra privato e pubblico, tra luogo sicuro e mondo esterno, imprevedibile e pericoloso. La chiave, il chiavistello sempre tirato; costretta spesso a casa da sola, con marito a lavoro e figlio a scuola, assediata telefonicamente ed alla porta di casa da venditori assillanti, Yasuko teme quel che c’è dietro la porta e quando è a casa si rinchiude nel suo nido. L’incontro/scontro con il giovane e petulante Yamakawa accenderà la miccia di tutte le sue paure, scatenando una spirale di follia e violenza. L’essenza di Door è quella di una home invasion in stile nipponico; dapprima il solare quadretto familiare, poi l’episodio scatenante e l’inquietudine che cresce, fino al climax dove la casa si tramuta da luogo sicuro a luogo dell’orrore (fino allo splatter vero e proprio).
Negli anni Ottanta, in cui il cinema giapponese è rappresentato soprattutto da Kurosawa, Oshima ed Imamura e prendono sempre più vita le trasposizioni degli anime, Banmei Takahashi realizza un film che incastona il classico home invasion nella cultura nipponica del suo tempo, dalla condizione della donna al consumismo imposto dal sistema capitalista.
La donna casalinga che cura l’appartamento e le piante sul balcone, che si assicura che il figlio prenda il bus per la scuola e va a riprenderlo, che sopporta le lunghe assenze per lavoro del marito, è uno specchio del mondo di quegli anni, in cui l’emancipazione femminile si sta facendo strada con la ratifica di una convenzione volta ad eliminare qualsiasi tipo di disuguaglianza di genere in ambito lavorativo ma è ben lungi dall’essere la normalità. D’altro canto, l’uomo è completamente assorbito dal lavoro, al punto da trascurare la famiglia; l’assenza di Satoru spicca nella storia come nella vita di Yasuko, e la tendenza a focalizzarsi sull’aspetto professionale a scapito della vita privata perdura ancora oggi. Anche Yamakawa, a suo modo, è uno stakanovista nel suo lavoro; e come venditore, diventa assillante oltre ogni limite, più determinato dopo ogni rifiuto, arrivando all’ossessione. Ma se l’assedio dei venditori, che con l’arrivo di Yamakawa raggiunge l’apice, è una chiara critica del capitalismo che ha invaso la vita tradizionale nipponica, rappresenta esso stesso una sorta di home invasion martellante a livello psicologico; il venditore che si trasforma in stalker e poi violentatore è anche una trasposizione metaforica dell’invasione di una cultura alienante ed un nuovo stile di vita. Tutto questo, Banmei Takahashi lo dipinge con ironia; se l’inquietudine data dall’incalzante escalation di Yamakawa ha i colori del thriller, lo scambio di battute ha spesso note sardoniche, che strappano una risata oltre la paura; soprattutto nel confronto finale, che assurge trionfalmente allo splatter vero e proprio.
Michela Aloisi