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Detroit

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VOTO: 8.5

Vittime di guerra

In futuro, ne siamo certi, quella che oggi potremmo definire con qualche libertà la “trilogia bellica” operata da Kathryn Bigelow con la decisiva collaborazione – non solo professionale – del giornalista Mark Boal in sede di sceneggiatura, costituirà un segmento importantissimo nella storia del cinema. Questo non solo e non tanto per i fatti narrati in opere come The Hurt Locker (2008), Zero Dark Thirty (2012) o questo Detroit di cui ci accingiamo a parlare. Quanto piuttosto per una forma capace di trovare un meraviglioso punto d’incontro tra realtà e finzione, tra virtuosismi di regia – alla Bigelow sempre riconosciuti – e senso profondamente etico. Come nel capolavoro Zero Dark Thirty, anche in Detroit, seppur con maggior coralità, la macchina da presa s’insinua nel cuore dell’azione, riprendendo quello che, a tutti gli effetti, è stato un terribile momento di guerra intestina nel cuore degli Stati Uniti. Correva l’anno 1967 nella città industriale più importante dello stato del Michigan, quando esplose la violentissima rivolta degli afroamericani nei quartieri – diciamo pure ghetti – a loro assegnati. Sembra oggi, per la continuità delle istanze che propone un lungometraggio come quello della Bigelow. Il segreto, come sempre dovrebbe essere, è quello di porsi alla giusta distanza dagli eventi mostrati. Non giudicando, non prendendo posizione a favore di nessuna delle parti in causa. Semplicemente mostrando. Per queste ragioni Detroit è un violentissimo pugno nello stomaco, un’opera che catapulta lo spettatore nell’inferno di una guerra anomala per costringerlo, in un certo senso, a crearsi un’opinione su ciò che accaduto, perfettamente ricostruito con dovizia di particolari – e qui entra in gioco il certosino lavoro di documentazione fatto da Mark Boal – nelle parti in cui la verità processuale, a posteriori, risulta assente.
Frammentario, quasi caotico con una propria logica nell’inseguire una moltitudine di eventi e personaggi che sarebbe piuttosto il caso di definire persone, anche per la contaminazione con le immagini d’epoca splendidamente operata dalla cineasta californiana, Detroit riproduce esattamente la nefasta casualità che si verifica nei conflitti bellici. Un gesto azzardato può costare la vita, un fatto fortuito può preservarla. Del tutto esplicativa, in questa chiave, la macro-sequenza ambientata nell’hotel Algiers da dove, avventatamente, un uomo di colore esplode alcuni colpi di pistola a salve verso polizia e militari in strada, con il coprifuoco in vigore. Azione e reazione, del tutto spropositata. Nell’albergo ci sono anche due ragazze bianche in compagnia di afroamericani. Le radici più becere del razzismo eruttano in tutta la loro virulenza. Se si dovesse indicare un (lungo) momento di cinema – peraltro molto simile, nell’assunto, a quello mostrato da Daniele Vicari in Diaz (2012) – nel quale emerge con nitore tutto il basso istinto della prevaricazione, certamente sarebbe questo. Uomini armati sovrastano esseri umani disarmati. E la notte finirà inevitabilmente, o meglio è finita realmente, nel sangue. Questo è Detroit. Una perdita generale di senso che vede i neri distruggere ed accanirsi per protesta sulle loro cose ed i bianchi fare sfoggio, con qualche dovuta eccezione, del razzismo che alberga in loro. Con relative, disastrose, conseguenze per tutti i sopravvissuti.
Curioso che, nella prima giornata della Festa del Cinema di Roma 2017 – dove Detroit fa parte della Selezione Ufficiale – siano stati presentati due film per certi versi complementari come Hostiles di Scott Cooper e, appunto, questo della Bigelow. Entrambi coltivano l’ambizione di raccontare le fondamenta dell’America. Il primo fallisce per furbizia ed eccesso di costruzione drammaturgica; il secondo riesce pienamente nell’intento attraverso una salutare ed obiettiva auto-critica nei confronti di un paese la cui genesi, nonché mantenimento dello status quo, si sono sempre basati sulla sopraffazione del forte sul debole. E ciò a prescindere dalla guida politica del momento, sia essa repubblicana o democratica. Detroit risulta essere un grande, grandissimo, film anche perché non si riferisce espressamente alla presidenza attuale targata Trump ma punta molto, molto più in alto. Dandosi come prima regola quella di non confondere mai causa ed effetto di una Storia ormai pluri-centenaria.

Daniele De Angelis

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